Diario del dott. Flammini 5 Novembre 1957
(seguito)
Ormai è notte. Sono riuscito ad entrare molto facilmente. Mi è bastato rimanere in silenzio, non ho dovuto dire nulla. Arrivato alle grandi porte in ferro delle mura occidentali sono stato accolto da urla di saluto e ringraziamenti. Non hanno nemmeno chiesto documenti, fortunatamente. Forse pensavano che fossi chissà chi. Tutto merito di questi abiti.
Rimane che superate le mura nessuno mi diede più importanza o meglio nessuno mi si avvicinava, solo segni della croce. Bambini mi scrutavano da dietro le finestre e quando mi voltavo per osservarli scappavano via con un sorriso stampato sul volto, che strano posto Torino.
Lungo il tragitto, prima di entrare, mi sono imbattuto in una scena buffissima: tutto il circondario della città è costellato di campi coltivati e sul ciglio della strada battuta che stavo percorrendo incontrai due frati nei pressi di un trattore.
Erano sporchi di grasso e portavano grandi occhialoni sul loro volto; guanti sulle loro mani terminavano l’equipaggiamento surreale. Lavoravano di gran lena sul motore del mezzo e dal mondo da cui provengo mai avrei visto due frati fare un lavoro simile… e sembravano anche sapere cosa stessero facendo: “passami il pappagallo“, “dammi la 12“, “no non va bene, passami la 10“, “tira qui, prova di la” e cose cosi.
Contrariamente a Ravenna, qui sembra esserci elettricità e ora che è notte ne ho avuto la conferma. Se guardo fuori dalla finestra della camera in cui mi trovo vedo la strada illuminata… ma allora corrente elettrica esiste qui ma perché non usarla ovunque? E cos’è quel gran baccano che sento da quando sono arrivato? Quel costante e lieve WHOOOOSSSSHHHHHH udibile da qualunque luogo di Torino?
Comunque, giù nella taverna – dopo aver posato le mie cose in questa camera sono sceso per nutrirmi – ho incontrato uno strano tipo con indosso una pesante cappa nera da viaggio. Il suo volto non era visibile ed era tutto intento a giocare a carte.
Mi ha invitato a sedermi e ad ascoltarlo, fu la sua voce altisonante a convincermi a dargli retta, come fosse una di eco; mani esili; dita affusolate; un tipo alquanto strano. Un vagabondo a giudicare dal nodoso bastone posato sulla sua spalla. Forse un lebbroso, non sarei stupito dalla cosa, ormai ho imparato ad aspettarmi di tutto da questo bislacco mondo.
Mi ha offerto da bere e mi ha chiedo si pormi d’innanzi a lui. Il taverniere, un tipo grassoccio e bisunto e mi portò un bicchiere di vetro mentre il mio astante sorseggiava dalla sua coppa di legno; ora che ci penso era l’unico che aveva una coppa anziché un bicchiere nella taverna, va beh.
Sta di fatto che questo tipo dice di volermi leggere le carte, per passare il tempo. Gli ho dato corda solo perché mi ha ricordato la mia adorata nonna – pace all’anima sua, almeno lei non si è mai risvegliata – io gli dico “Va bene, straniero. Ma credo a queste cose“. Lui risponde “Prendi” e da un sacchetto che prima non avevo notato tira fuori una moneta doro e me la porge.
“Stringila forte” fa, ed io lo faccio perché cazzo se era convincente: ero come imbambolato.
Ti dirò, ero molto curioso di vedere dove volesse andare a parare, e lui che fa? Non mi inizia a mescolare davanti un mazzo? Piccolo direi, troppo piccolo per essere come quelli di mia nonna; quando lei mi faceva le carte ricordo che ne erano molte di più.
Alla fine inizia ad estrarne una ad una, lentamente e inizia a porle sul tavolo.
Le prime incrociate tra di loro; poi costruisce con le altre una croce più grande, come a voler fare una celtica; infine ne dispone quattro al lato destro del tavolo e inizia a girarle ad una ad una. Non dice nulla, si limita a guardarle. Ricordo a grandi linee l’ordine che trascriverò, sia mai che qualcuno in futuro potrà capirne qualcosa di più:
La Morte
La torre
Il Papa
La Forza
La Luna
L’Eremita
IL Diavolo
Il Matto
L’imperatore
L’imperatrice
L’appeso
La Giustizia
Il Sole
Il Carro
La cosa curiosa di tali Tarocchi erano i disegni. Ricordo perfettamente che alcuni di questi erano palesi omaggi a luoghi a me noti come la Torre Eiffel.
Quando alzai lo sguardo per chiedere spiegazioni su cosa volessero dire disposte cosi mi resi conto che quell’uomo non vi era più.
Rimasi spaesato e mi osservai freneticamente intorno cercandolo ma non lo trovai. Osservai poi la mia mano e nemmeno la moneta era più li; in compenso una strana cicatrice a forma di pentacolo campeggiava sul mio palmo.
Eravamo solo io e il mio bicchiere mezzo vuoto. Chiesi spiegazioni al barista e non seppe cosa dirmi. Tornai in camera ed eccomi qui intento a scrivere; inventato non me lo sonoe questa cicatrice ne è la prova, che diavolo è quel simbolo? E, ora che ci faccio… Caspita e lo stesso che era posto sul caprone nel tarocco del Diavolo…
Chi era quell’uomo che mi ha letto le carte?
Cosa voleva da me?
Perchè si è dileguato?
E sopratutto: cos’è questo simbolo?
Se mi concentro riesco a ricordare solo i suoi occhi, di un blu intenso, ma non un blu azzurro, normale. Erano più come due puntini luminosi e immobili che mi scrutavano da sotto quel cappuccio.
Meglio andare a dormire…
… e fasciarmi la mano, non si sa mai!
<-Capitolo XXIII – Capitolo XXV->
This post was published on 3 Novembre 2017 19:00
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