Introduzione
Il gioco di ruolo è un’attività piuttosto di nicchia. Escono in continuazione nuovi titoli, ma la maggior parte dei giocatori è legata ad uno o due giochi: vuoi perché già li conosce, vuoi perché ha comprato una gran quantità di manuali lunghi e costosi, vuoi perché pensa che bene o male i giochi di ruolo siano tutti molto simili come regole e quello che cambia sia l’ambientazione, e dunque ritiene di non avere bisogno di altri sistemi.
E moltissimi giocatori di ruolo, se provate a chiedere, o seguire le pagine di discussione, condividono una serie di convinzioni: che le regole si contrappongano alla narrazione, e che talvolta vadano ignorate per il bene della storia; che il master possa decidere tutto e se è sadico è meglio; che con il proprio GDR preferito ci si possa fare tutto perché alla fin fine le regole non contano; che nei giochi di ruolo sia fondamentale sapere come e quanto sa combattere il tuo personaggio.
È dal 1999 che, all’interno della comunità dei giocatori di ruolo e dei designer, è sorta una cultura che sfida tutti questi assunti, e molti altri. A dare il là fu The Forge, forum sorto dalla mailing list del gioco Sorcerer di Ron Edwards. The Forge fu un forum in cui per anni sviluppatori indipendenti cercarono di produrre giochi innovativi, giocando e analizzando i giochi altrui per darsi reciprocamente dei feedback. Si cercò di riflettere consapevolmente sull’attività del giocare di ruolo, sempre tramite analisi di giocate concrete (actual play), su cosa andasse e non andasse nei giochi, sul testare nuove tecniche e cercare di ricavarne considerazioni di game design, e sul produrre buoni giochi di ruolo.
L’idea centrale, il fulcro di tutto il movimento del design non tradizionale, è che le regole hanno un impatto sull’esperienza di gioco (System Does Matter fu l’articolo che inaugurò questo movimento). Le regole fanno la differenza su cosa succederà nel mondo immaginario, fanno la differenza sul tipo di storie che si giocheranno e sugli interventi che faranno i giocatori. E dunque, indagare sull’effetto delle meccaniche e immaginarne di varie e diverse permette di creare giochi che diano esperienze differenti.
Questo discorso è valido fin dall’elemento più piccolo: prendiamo i punti ferita di D&D. Il fatto che ci siano dei numeri a simulare lo stato di salute, e siano tutti guaribili, rende quasi sempre assenti dal mondo cose come gambe rotte, cecità permanente, emorragie o cicatrici. Il fatto che ci siano i livelli dà una struttura stile Dragonball in cui nel mondo man mano le minacce iniziano ad essere sempre più grandi. Un gioco come Fate in cui ci sono invece dei descrittori, le Conseguenze, fa sì che in una partita high fantasy il mondo sia pieno di arti rotti, sordità, mani mozzate, e che i combattimenti parlino di quello.
O pensate all’escalation die di 13th Age: è un gioco in cui il combattimento è quasi identico a D&D. Però, i nemici hanno valori di difese più alti, per cui è più difficile colpirli. Ma ad ogni turno si aumenta di 1 la faccia dell’escalation die, e tutti i PG sommano il valore del dado ai loro attacchi. Inoltre, alcuni incantesimi e attacchi molto potenti si possono fare solo quando il dado ha raggiunto un certo valore. Questo semplice accorgimento genera un tipo di esperienza simile agli anime in cui inizialmente ci si studia e ci si scambia dei colpi, tenendo la mossa finale per l’ultimo momento (laddove in D&D c’è l’effetto “supernova” per cui si spara il meglio che si ha nei primi due turni).
In Worlds in Peril, gioco di supereroi, nelle situazioni particolarmente drammatiche potete decidere di “bruciare un legame” per garantirvi un esito migliore. “Per esempio, la scazzottata con l’Avvoltoio vi obbliga a dare buca a Mary-Jane, che avevate invitato a cena quella sera stessa.”
Insomma: il sistema fa la differenza. Sono trascorsi diciotto anni, e il lascito di questo movimento per quanto riguarda i giochi di ruolo è di valore inestimabile. Si tratta di stili radicalmente differenti sia per quanto riguarda il game design, sia per il modo di scrivere i manuali, sia per quanto riguarda il discorso editoriale e commerciale. I giochi che hanno recepito questo stile, in Italia, vengono comunemente chiamati “moderni” o “non tradizionali”. La maggior parte dei giochi di ruolo che a tutt’oggi dominano sul mercato, però, sono “tradizionali”.
Si possono ipotizzare varie ragioni per questo fatto. Alcuni potrebbero dire che se la cultura “non tradizionale” non è riuscita a diventare la norma, significa che si tratta di qualcosa di inutile, di scarsa qualità o di non richiesto. Il sottoscritto è in forte disaccordo con un’idea simile, ma esaminare le ragioni della poca diffusione di questa cultura esula dagli scopi dell’articolo.
Molti dei giochi che escono attualmente e che hanno un grande successo commerciale hanno incorporato piccoli elementi, qua e là, ispirati da giochi “non tradizionali” (Numenera, 13th Age, D&D 5, le seconde edizioni del Nuovo Mondo di Tenebra sono alcuni esempi, come anche la futura edizione di Kult); ma si tratta di aggiunte decisamente timide e monche, e spesso non si incastrano neppure bene con il resto del gioco.
Lo scopo di questo articolo è quindi di far conoscere ai giocatori di ruolo degli elementi del game design dei giochi, del modo in cui sono scritti i manuali, e del modo in cui sono venduti, che nonostante esistano da diciotto anni sono sconosciuti alla quasi totalità degli appassionati, e che possono sfidare molti assunti che vengono considerati la norma, senza neppure pensare che potrebbero esistere delle alternative.
Ed ecco gli elementi “moderni” che si discostano dagli elementi più noti e diffusi (suddivisi in blocchi, dovete selezionarli per leggerli tutti):
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Assenza di Regola Zero
Viene chiamata così, in gergo, quell’indicazione presente in pressoché tutti i manuali dei giochi più diffusi, e che dice qualcosa come:
“Possono accadere cose terribili nel gioco solo perché i dadi vanno di traverso. […] Se tutti i personaggi muoiono la campagna è bella che finita, il che non è piacevole per nessuno. […] È nei suoi diritti [del DM, ndA] dirigere le cose in un modo o in un altro per far felici tutti oppure per far proseguire il gioco senza intoppi. […] Anche decidendo che, di tanto in tanto, sia lecito barare per far sopravvivere i personaggi così che il gioco continui, questa decisione non va comunicata ai giocatori. […]” – D&D 3.5, Guida del Dungeon Master, pagina 18
Alcune formulazioni vanno anche oltre:
“Le regole esistono, certo, ma solo allo scopo di fornire solidità e credibilità alla storia. Se il Narratore le reputa d’intralcio per il suo racconto, può sbarazzarsene in qualsiasi momento.” – Mondo di Tenebra, Regolamento del Sistema di Narrazione, pagina 189
Lo stile “non tradizionale” rifiuta questo approccio, per due ragioni. La prima è che la regola zero è la negazione dell’idea che il sistema conta. Se il sistema dà un certo tipo di esperienza, ignorare le regole alla bisogna significa che non si avrà un tipo di esperienza coerente e stabile, e che sarà anche più difficile valutare il gioco e apportargli migliorie ragionate. La seconda ragione è che sia sintomo di un game design pigro: se sorgono situazioni in cui è desiderabile ignorare le regole o il risultato dei dadi per il bene dell’esperienza di gioco, significa che c’è un problema nelle regole stesse. E dunque i giochi moderni:
- Per quanto riguarda la scrittura dei manuali, anziché avere la regola zero insistono esplicitamente sul fatto che tutte le regole vanno seguite così come sono scritte.
- Per quanto riguarda il design del gioco, mirano ad una progettazione in cui non avviene mai che ci si trovi in una situazione in cui si potrebbe voler ignorare una regola.
Per capire un po’ meglio, dato che l’esempio tipico è la morte di un personaggio in un momento anticlimatico per via di tiri sfortunati dei dadi: ci sono giochi in cui i dadi non regolano la vita e la morte dei personaggi (come in Shock: Social Science Fiction); oppure in cui si può morire soltanto se si decide di partecipare a un conflitto in cui si mette consapevolmente a rischio la vita del personaggio (come in Torchbearer); oppure si può concedere il conflitto avendo diritto a decidere le sorti del proprio personaggio pur nella sconfitta (come in Fate).
Altri modi di togliere la necessità di ricorrere alla regola zero sono:
- Uno stile improntato alla trasparenza al 100% nell’applicazione delle procedure: per questo nei giochi moderni non vedrete tiri fatti in segreto dal master, o tiri dei giocatori senza che la difficoltà sia stata dichiarata, in modo che il master possa decidere dopo il tiro se vuole che abbiano successo o falliscano (ci sono eccezioni, ma fatte consapevolmente e in cui la segretezza è funzionale agli obiettivi del gioco, come in Kagematsu).
- Il tentativo di eliminare o ridurre al minimo la discrezionalità nell’applicazione delle regole. In D&D il DM può decidere se chiamare un tiro di abilità, e che difficoltà ha, oppure se far sì che l’azione abbia successo. Questo introduce arbitrarietà. I giochi moderni cercano di evitare situazioni simili: in una data situazione c’è un modo per gestirla, da regole.
Per capire ancora un po’ meglio, un’ottima e breve lettura è I dadi non hanno senso estetico (da pagina 41 a pagina 50). Se qualcuno ritenesse impossibile l’esistenza di un gioco di ruolo in cui non capita mai di dover ignorare le regole per “il bene della storia”, per una discussione più fruttuosa invito ad un esercizio concreto: leggete il regolamento del gioco The Pool. Sono 8 pagine comprese copertina e ringraziamenti finali. Chiedetevi: in che situazione ipotetica sarebbe meglio ignorare le regole?
È bene evitare una possibile confusione, comunque: la cultura “non tradizionale” è ben favorevole alle house rules e alle hack dei giochi. La regola zero riguarda la decisione del master di ignorare una regola in un dato momento, anche senza comunicarlo agli altri giocatori; le house rules sono modifiche al gioco fatte a monte, valide per tutta la partita e concordate al tavolo.
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Procedure sull’impostazione della partita
Un altro dei problemi rilevati nello stile di scrittura dei manuali tradizionali è che mancano le parti fondamentali su come effettivamente si gioca il gioco. Tipicamente ci sono pagine e pagine su come risolvere gli esiti delle azioni, e talvolta qualche suggerimento su come fare il master. Si è talmente abituati a questo stato di cose, che non ci si accorge neanche dell’assurdità di questa mancanza: eppure se osservate le pagine di giochi di ruolo, sono piene di domande come…
- Bisogna fare il background del personaggio? Come si fa?
- Come si crea una campagna?
- Nel mio gruppo ci sono un paladino e un ladro caotico malvagio, come faccio a farli stare insieme?
- Il gruppo non ha obiettivi comuni, come faccio a farli stare insieme?
- Come gestire i segreti tra i personaggi e tra giocatori?
- Cosa devo preparare e cosa devo improvvisare?
E le risposte sono le più disparate, perché non sono state formalizzate dai designer delle procedure playtestate e funzionali per il gioco. Invece, si è lasciato ai gruppi l’onere di crearsi, per tentativi ed errori e in base al proprio gusto, le procedure essenziali per impostare la partita e giocare. Questo significa però avere manuali che, per chi non ha mai giocato di ruolo, portano a confusione e rendono necessario chiedere lumi ad altri giocatori, che daranno le loro personali risposte.
Il che significa che uno stesso gioco tradizionale viene giocato in modi diversi e incomparabili da diversi gruppi, e che c’è meno comunicabilità di esperienze.
Lo stile moderno si discosta in questi modi:
- Ponendosi come obiettivo di scrivere manuali con tutte le informazioni necessarie sulle procedure per impostare la partita, compresa la totalità della fase di creazione dei personaggi e il modo in cui si conduce la partita, cercando di non lasciare spazi vuoti (evitare il murk). Cercano inoltre di tenere un rapporto con il pubblico in modo da sapere come viene giocato il gioco e se servono modifiche al manuale perché le procedure non sono chiare o non sono complete (ovviamente è un proposito, non riesce sempre in modo compiuto).
- Questo significa avere esperienze di gioco più comparabili, perché il gioco X si gioca così, il gioco Y si gioca cosà, anziché far sì che ogni gruppo abbia le sue abitudini consolidate, diverse dagli altri gruppi, che reitera su ogni singolo gioco. Per approfondimenti, si veda il nostro articolo sugli intenti creativi.
- Incidentalmente, per quanto riguarda il modo in cui i manuali sono venduti, questo comporta anche un’altra differenza di stile: i giochi moderni rifiutano il modello degli splatbook e della proliferazione dei manuali. Là dove D&D ha 3 manuali base e poi svariati manuali aggiuntivi, un gioco di ruolo moderno tende ad avere un singolo manuale autosufficiente e completo.
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I manuali inoltre tendono ad essere più compatti. Ci sono eccezioni di rilievo (Blades in the Dark ha 336 pagine, ad esempio), ma moltissimi cercano di stare sotto le 100, le 50, e alcuni (pochi) sono scritti in modo da poterli giocare mentre si legge il manuale, anziché doverselo studiare prima. Un esempio è Mars Colony, gioco per due persone su un politico terrestre mandato su una colonia su Marte a risolverne i problemi.
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Ripensare il ruolo del Game Master
Nei giochi tradizionali la figura del master tende ad avere responsabilità molto simili: gestisce tutti i PNG, gli eventi, i luoghi, ogni elemento del mondo che non siano i PG, le conseguenze delle azioni dei PG, imposta le scene, prepara l’avventura/campagna.
Questo comporta una notevole dose di preparazione al di fuori delle sessioni, oltre a fare affidamento su una serie di qualità molto diversificate che difficilmente si trovano nella stessa persona: designer, sceneggiatore, attore, narratore, contabile.
I giochi dal design contemporaneo hanno cercato al tempo stesso di sfidare questi assunti per vedere se fosse possibile fare diversamente (ed è possibile), e di rendere i giochi più accessibili a persone che non hanno il tempo e/o la voglia e/o le capacità necessarie a gestire tutto ciò. In generale, la filosofia dietro il movimento moderno è che il master non debba essere un dio, né il garante del divertimento altrui, bensì un giocatore come gli altri, che gioca per scoprire cosa succede come gli altri (e non per raccontare una sua storia!). Una metafora spesso usata è che il giocare di ruolo è come una jam session, musica improvvisata: e il master è il bassista. Lui dà ritmo e corpo alla melodia, ma la melodia la fanno gli altri strumenti. Questo non solo è stato fatto cercando di non perderci come qualità complessiva, ma anzi mirando a ottenere di più dovendo “lavorare” di meno. Come?
- Le procedure di creazione della partita sono suddivise tra i vari giocatori, in modi differenti a seconda del gioco. Questo solleva il master dalla necessità di prepararsi un’intera campagna, oltre a far sì che il gioco parli di ciò che interessa a tutti i giocatori.
- Il non dover impostare una campagna fin dall’inizio va di pari passo con il non dover preparare le sessioni prima del gioco, oppure con l’avere una preparazione minimale e funzionale (raramente oltre la mezzora, spesso anche meno).
- Ogni gioco ha le sue tecniche e procedure per far sì che le situazioni prendano pieghe interessanti senza essersi preparati la storia prima: dai Bang e i Kicker di Sorcerer, ai Fronti e i Triangoli di Apocalypse World e derivati, l’idea generale è di concentrarsi su ciò che è importante per i PG e sul muovere i PNG, anziché avere degli eventi prefissati. (Torneremo su queste tecniche in articoli futuri).
- I punti precedenti implicano che la storia nei giochi di ruolo moderni è emergente, è il risultato degli interventi di tutti al tavolo: non c’è una storia già scritta da giocare, ma si “scrive” man mano che i giocatori, master compreso, muovono i PG e i PNG e fanno succedere cose.
- In molti giochi le autorità narrative del master sono distribuite in vario modo tra i giocatori, così che ad esempio abbiano il diritto di introdurre elementi in scena (Sporchi Segreti e Fate), o di narrare gli esiti dei conflitti in cui perdono (Trollbabe). C’è insomma la tendenza ad affiancare la Author Stance e la Director Stance accanto alla Actor, mentre si tende a sbarazzarsi della Pawn Stance. Per maggiori informazioni sulle Stances, si veda quest’altro nostro articolo.
- In molti giochi moderni la figura del master è addirittura assente. Generalizzando un po’, si potrebbe dire che in giochi come Montsegur 1244 e Witch: Road to Lindisfarne sia il gioco stesso a fare da master, tenendo un filo conduttore. In altri, come Fiasco, Shock e Polaris, ciò che comunemente è di competenza del master viene svolto da un po’ tutti i giocatori a rotazione: chi gioca l’opposizione al PG in scena, chi interpreta il tal PNG, chi imposta la scena… (che talvolta è il giocatore il cui PG è in scena).
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Smarcarsi dall’eredità dei wargame
Per motivi storici e contingenti, i giochi di ruolo più diffusi si ritrovano ad avere una serie di somiglianze con i wargame: miniature, griglia, presenza di regole dedicate al combattimento, personaggi caratterizzati dal modo in cui combattono. Questo è dovuto al fatto che D&D nacque come evoluzione di Chainmail, un gioco di miniature, e che i giochi di ruolo tradizionali si rifanno in maggiore o minore misura al modo in cui funziona D&D.
Paradossalmente, la prima edizione di D&D non aveva neppure scritto “roleplaying game” in copertina né nel manuale, e Gary Gygax, il suo creatore, detestava il termine, dato che lo associava a delle realtà precedenti a D&D e utilizzate in ambito psicologico, teatrale, persino militare, che poco avevano a che fare col suo gioco di esplorazione di dungeon con miniature.
Eppure si tratta di un altro assunto che viene dato per scontato, ma su cui basta soffermarsi un attimo per notarne la bizzarria: perché parliamo di giochi in cui ci si cala in personaggi per vivere delle storie, e poi ci sono sempre pagine e pagine su come si combatte, e in scheda c’è scritto come e quanto il tuo personaggio combatte? Perché ogni gioco di ruolo famoso ha un minigioco wargame come metodo di risoluzione di conflitti violenti?
In cosa si distanziano i giochi moderni?
- Non c’è un sottosistema dedicato al combattimento. Non esiste iniziativa, non esistono turni, difficilmente si entra in un gioco-nel-gioco. In Apocalypse World e Dungeon World, quando si arriva a combattere, e succede spesso, il gioco continua a funzionare esattamente come prima: si dice cosa si fa, e le azioni generano conseguenze. In Dogs in the Vineyard c’è un sistema di risoluzione dei conflitti separato dal resto del gioco, ma non è dedicato nello specifico al combattere – si utilizza ogni qualvolta si vuole ottenere qualcosa e c’è qualcun altro che ha una volontà contrapposta. In moltissimi giochi di ruolo invece non capita proprio che si arrivi a combattere, perché parlano d’altro (Mille e una Notte, Dilemma, Primetime Adventures se si gioca una serie TV sulla falsariga di, poniamo, Will & Grace).
- I giochi moderni tendono a essere fiction first, come opposto a mechanics first, in ogni loro parte. Avete presente che è possibile giocare un combattimento di D&D come fosse un gioco da tavolo, in cui si scelgono le azioni e si tirano i dadi senza dover far quadrare queste cose con ciò che sta avvenendo in gioco? Ad esempio, le regole ti permettono di attaccare un drago se sei nel quadretto vicino, anche se sei lì con la spada e al massimo hai vicino la sua unghia della zampa. Oppure, se sei caduto in una chiazza di Unto sei costretto a reagire con un Tiro Salvezza di Destrezza, non puoi sfruttare il tuo arpione per fare perno sulla colonna vicina e trascinarti fuori. In un gioco come Dungeon World, invece, le regole partono sempre dal contesto della fiction e tornano lì, non è letteralmente possibile affrontare il combattimento come un gioco da tavolo. Ed è possibile usare l’arpione per togliersi dalla chiazza di unto facendo perno. E per affrontare il drago bisognerà arrampicarcisi sopra, scoprire il suo punto debole e sperare di riuscire a conficcargli la spada in quella specifica scaglia mentre lui si starà dimenando per farvi precipitare, o cercherà di schiacciarvi col dorso contro la parete della grotta. Per comprendere meglio, c’è l’ottimo articolo Fiction first: cos’è e perché è importante di Giochi dal Nuraghe. (Nota: mechanics first non significa dare più importanza alle meccaniche, bensì che le meccaniche si possono applicare senza fare riferimento al contesto del mondo immaginario; come in un gioco da tavolo).
- I giochi di ruolo più diffusi condividono tutti la stessa struttura, lo stesso tipo di storia. Che sia D&D, Vampiri, Sine Requie, Trail of Cthulhu o Cyberpunk 2020, si torna sempre lì: c’è un gruppo, unito, che va avanti insieme a risolvere una o più missioni. Eppure esistono moltissimi altri tipi di storie: pensate al Trono di Spade – parla di personaggi singoli mossi da obiettivi personali, spesso confliggenti con gli altri, che solo raramente e temporaneamente si trovano a collaborare con gli altri (come in Fallen Empires, hack di Apocalypse World); oppure un racconto lovecraftiano, dove c’è tipicamente la discesa di un singolo personaggio nella follia (come in Lovecraftesque), non certo un gruppo di tizi che risolvono un mistero e rischiano di farsi picchiare da un Grande Antico; la maggior parte delle storie cyberpunk si basa su personaggi singoli (ed ecco che il gioco Remember Tomorrow può fare al caso nostro); nelle sit-com non c’è nessuna missione da risolvere, e generalmente neppure conflitti violenti (come in Primetime Adventures); e così via. Ecco, moltissimi giochi moderni sfidano l’assunto del gruppo unito che risolve missioni, e propongono invece sistemi con cui dar vita a storie dalla struttura davvero diversa. Questo di norma funziona con scene individuali in cui c’è un solo PG alla volta (eventualmente con l’aggiunta di altri), e gli altri partecipano giocando l’opposizione, o qualche PNG, o semplicemente assistono perché si gioca per il gusto di vedere cosa succede (e talvolta il pubblico può intervenire con delle meccaniche, come in Shock o Microfiction). E anche laddove si ha un gruppo unito, spesso le cose non sono così semplici: in Dogs in the Vineyard, ad esempio, il punto è proprio la diversità di vedute morali dei PG. Giocando si affronteranno frequenti conflitti, in gioco, tra PG, che possono anche escalare e condurre alla violenza. Chi lo gioca mettendo in pausa quando bisogna scegliere cosa fare, per mettersi d’accordo off game, e poi riprendere il gioco e agire tutti insieme come un bruco, si sta letteralmente mettendo d’accordo per evitare di giocare.
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Le meccaniche gestiscono il gioco, non il mondo
I giochi tradizionali hanno ambientazioni spesso suggestive e si fanno portatori di temi importanti, ma quasi sempre hanno poi una meccanica di risoluzione delle azioni che sembra una sorta di simulatore fisico del mondo: come un gioco che parla dell’intimo orrore di essere un vampiro, ma poi le regole si attivano quando devi saltare un fosso molto lungo, guidare una macchina, etc.
L’idea è che le regole ti danno il framework di un mondo in cui le conseguenze delle azioni sono prevedibili e affidabili, come reazioni causa-effetto, e poi il resto tende ad essere non regolamentato, salvo sporadiche eccezioni.
La filosofia “moderna” invece sostiene che i giochi di ruolo non siano delle simulazioni di mondi, bensì il dare vita insieme a delle storie. E questo significa che le regole non stanno davvero simulando un mondo, bensì gestendo la narrazione. In ultima analisi, le regole di un gioco di ruolo stanno dicendo quale giocatore ha il diritto di dire cose su ciò che succede nel mondo di gioco, come fanno ad essere considerate vere, e quando può dirle (il “chi può dire cosa e quando“). Inoltre non sono mai neutre, ma hanno conseguenze sull’esperienza di gioco. Come affrontano la questione i giochi moderni?
- Le meccaniche si focalizzano sui temi, i tropi e i conflitti che sono importanti per l’esperienza che il gioco vuole convogliare. In Monsterhearts, gioco che parla di drammi adolescenziali di creature soprannaturali, non ci sono conflitti sull’arrampicarsi su un albero. Invece, ad esempio, si innescano le regole quando qualcuno rompe una promessa con un Fatato o gli chiede di fare qualcosa di importante per lui; o quando qualcuno scarica i suoi problemi emotivi su un Fantasma, oppure il Fantasma accetta che qualcuno non è responsabile del suo dolore e lo assolve. E le possibili conseguenze sono tutte tematiche. In Dread il particolare utilizzo della torre jenga aiuta a ricreare il ciclo di tensione-tragedia tipico delle storie horror.
- Se le regole servono a gestire il gioco e non a simulare un mondo pseudo-realistico, allora si apre la possibilità di gestire PG e PNG in modo diverso, e con un diverso livello di dettaglio. Si hanno insomma PNG perfettamente funzionali senza dover creare schede iper-dettagliate che costano fatica e tempo.
- Inoltre si apre la possibilità per una gestione asimmetrica delle azioni. In moltissimi giochi moderni il GM, laddove c’è, non tira i dadi per i PNG, anche qualora facciano le stesse cose che potrebbe fare un PG innescando un tiro di dado.
- I personaggi tendono a essere caratterizzati, fin dalla scheda, da obiettivi, legami, tratti del carattere, difetti. Se non interessa sapere che armi hanno e come combattono e quanto sanno saltare i fossi, semplicemente non ci sarà nulla a riguardo nella scheda.
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Dal momento che si è visto quanto il design di un gioco possa incidere sul tipo di esperienza, molti di questi giochi sono focalizzati su temi parecchio specifici. Alcuni non si pongono neppure come obiettivo lo svago, bensì di fare critica sociale o far riflettere su un certo tema o esperienza (vedi Precious sulla pena di morte, Stonewall 1969 sui moti che condussero al primo Gay Pride, o l’autoesplicativo Coma).
Prossima parte: Superamento del binarismo successo/fallimento
Superamento del binarismo successo/fallimento
La maggior parte dei giochi tradizionali, per quanto abbia sistemi di risoluzione che fanno riferimento a dadi diversi, o a pool di dadi, rimane ancorata a un assunto: che o si ha successo, o si fallisce, tertium non datur. Essendo peraltro spesso dei giochi basati su sfide da superare, il fallimento può portare in stallo il gioco, generando quelle situazioni in cui si fa tirare a tutti sperando che qualcuno abbia successo e trovi la porta segreta, e se non succede be’, il master si inventerà un modo per fargliela trovare, in barba ai dadi.
I giochi moderni hanno sperimentato molto con le possibili alternative a questo binarismo, tra cui:
- Tripartizione (o addirittura quadripartizione) in cui si aggiunge anche il successo con costo: si ottiene ciò che si voleva ma con un compromesso, una brutta scelta, conseguenze non volute. Se ne è parlato più estesamente in questo articolo.
- Fail forward: il fallimento non deve essere mai qualcosa che conduce ad uno stallo, ma porta avanti la storia con delle conseguenze. Si tende inoltre a progettare giochi in cui se il fallimento può solo portare ad uno stallo e a nulla di interessante, allora semplicemente quello non è un conflitto nel gioco, e non c’è nessun dado da tirare.
- Fortune in the middle: dopo il tiro dei dadi l’esito non è ancora definito, ci sono ulteriori scelte da prendere, o su come utilizzare i dadi (Dogs in the Vineyard), o su come diramare gli eventi (Apocalypse World), o per cercare di evitare un brutto risultato spendendo delle risorse e facendo qualcosa in gioco per poter ritirare (Monster of the week, Fate).
- Talvolta i conflitti ti dicono come sta cambiando la situazione o addirittura che piega prenderà la storia futura: in Fiasco se stai accumulando dadi negativi le cose ti stanno andando male ora, ma sai che quindi quasi sicuramente avrai un riscatto sul finale, ad esempio.
- Conflitti con obiettivi dichiarati: in molti giochi moderni va esplicitato quali sono gli obiettivi che hanno le parti in gioco e che otterranno se vincono il conflitto, sempre all’insegna della trasparenza. Sono giochi in cui si possono perdere i conflitti senza che questo porti a rovinare il gioco: questa conseguenza non va assolutamente sottovalutata. I conflitti sono intesi non come sfide ma come motore della storia, che fa prendere una direzione piuttosto che un’altra. Questo permette di avere personaggi che talvolta perdono e non ottengono ciò che vogliono, e storie dalla struttura drammatica e imprevedibile (anziché il gruppo di eroi che prevedibilmente risolverà la missione passo dopo passo).
Eccoci giunti al termine dell’analisi delle differenze che i giochi moderni hanno portato in campo nel mondo dei giochi di ruolo. Non si tratta di un processo compiuto e non è possibile tagliare con l’accetta giochi che seguono integralmente tutti questi punti, e giochi che invece non ne seguono nessuno: specie negli ultimi anni ci sono state molte contaminazioni. Per questo più che parlare di giochi moderni e giochi tradizionali è forse meglio parlare di singoli elementi di design contemporaneo, e analizzare ogni gioco come un mondo a sé. D’altronde, ad esempio, il proposito di chiarezza nei manuali e di non lasciare buchi nelle regole è, appunto, un proposito: i singoli giochi possono raggiungerlo in misura maggiore o minore.
Si tratta complessivamente di un movimento che spinge i designer a dare importanza alla progettazione di meccaniche funzionali all’esperienza che vogliono produrre, a scrivere manuali in modo chiaro e trasparente, e a tenere un rapporto coi giocatori per avere feedback e migliorare costantemente il gioco. Si tratta di obiettivi che dovrebbero essere fatti propri da qualunque designer di giochi di ruolo, e che piano piano stanno venendo sdoganati anche nell’ambiente più mainstream.
Per esigenze di spazio ci sono state alcune semplificazioni, non si è tenuto conto di alcune eccezioni, e molti punti possono essere difficilmente compresi senza aver provato parecchi giochi. Perciò il consiglio migliore è probabilmente questo: giocate, giocate, giocate. Provate tanti giochi diversi, leggete le regole e applicatele, e scoprirete un mondo di meccaniche uniche e individuali che vi permetteranno di vivere moltissime storie diverse, imprevedibili, e senza la necessità di onerose preparazioni.
Buon gioco a tutti e tutte!