Solo una su cinque ha un piano per contrastare il cambiamento climatico.
Pochi giorni fa si è conclusa Cop28, la più grande conferenza mondiale sull’emergenza climatica, tenutasi a Dubai. I potenti della Terra, dalla politica all’economia, dall’industria alla ricerca, si sono riuniti per intavolare discussioni e trattative riguardanti la transizione energetica e lotta al surriscaldamento globale, fattori che da anni peggiorano lo stato di salute del pianeta e concorrono ad anticipare sempre più l’Earth Overshoot Day, ovvero il giorno dell’anno in cui i consumi di risorse superano la capacità del nostro pianeta di rigenerarle (per la cronaca, quest’anno è stato il 2 agosto).
Ma l’Italia quanto si sta impegnando su questo fronte? Piuttosto poco, almeno limitatamente alle sue aziende, come dimostra un rapporto presentato proprio durante i giorni della conferenza, che deve farci riflettere su quanto lunga sia la strada ancora da fare da parte del nostro paese per intraprendere un percorso virtuoso di cambiamento.
Il 10 dicembre è stato presentato al padiglione Italia il report sulla ricerca “L’impegno delle aziende italiane per il net-zero”, realizzata da Ipsos in collaborazione con il Network italiano del Global Compact delle Nazioni Unite (UNGC). Il documento vanta anche un’introduzione del Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin. Da questo documento emerge una situazione che non si deve aver timore di dichiarare preoccupante: solo un’azienda italiana su cinque dimostra di aver adottato un piano di contromisure per mitigare il proprio impatto sui cambiamenti climatici.
Una situazione che va corretta al più presto, soprattutto se consideriamo il fatto che è stato posto l’obiettivo di raggiungere il net-zero climatico entro il 2050. Per chi ancora non avesse ben chiaro il significato di questa espressione, per net-zero si intende il raggiungimento di una perfetta parità tra la quantità di gas serra e sostanze inquinanti emesse nell’atmosfera e la quantità prelevata da essa. Tale parità al momento è ancora ben lontana dall’essere raggiunta, e per arrivarci è necessario diminuire sempre più la dipendenza umana da fonti energetiche altamente inquinanti quali carbone, petrolio e gas, favorendo la diffusione sempre maggiore di energia pulita, ovvero proveniente da fonti rinnovabili e nucleare: l’obiettivo posto da Cop28 è quello di triplicare la produzione di energia rinnovabile entro il 2030 e triplicare quella atomica entro il 2050.
Il problema, comunque, non è una mancanza di consapevolezza sul tema: stando al rapporto ben l’88% delle aziende dichiarano di riconoscere che la sostenibilità dovrebbe essere il concetto cardine alla base di ogni strategia di sviluppo industriale, e tuttavia sono in pochi quelli che mettono in campo iniziative concrete in questo senso. Certo bisognerebbe innanzitutto dettare qualche linea guida comune, partendo magari da una definizione condivisa del concetto stesso di sostenibilità, che non è sempre chiaro ed univoco per tutti.
Questo è uno dei punto chiave espresso anche dal ministro Fratin, che ha ribadito la necessità di inserire le PMI all’interno di un percorso di transizione industriale nazionale, che possa accompagnare le aziende verso una serie di obiettivi graduali comuni. Iniziative del genere già esistono all’interno delle aziende facenti parte del Network italiano del Global Compact delle Nazioni Unite, nel quale ben il 58% ei membri ha varato o sta già iniziando ad implementare piani trasformativi atti al raggiungimento del net-zero nel giro di pochi anni.
Dal punto di vista della consapevolezza, come si diceva sopra, molte aziende italiane devono darsi una svegliata, a partire dalla definizione di quali siano i problemi che in azienda ostacolano l’efficientamento in termini di impatto ambientale e quali le strategie migliori per fronteggiarle. Il problema è che molte aziende nemmeno si pongono il problema, o non hanno il know-how necessario per occuparsene. Ecco perché occorrerebbe prima di tutto assumere del personale adeguato, figure professionali specificamente formate o, se le risorse aziendali non consentono questa possibilità, almeno scegliere di affidarsi ad una consulenza esterna specializzata. Dal report emerge che al momento solo il 34% delle aziende ha al proprio interno una persona o un team dedicato allo studio di misure di riduzione dell’impatto ambientale delle stesse.
Certamente però alcuni settori sono più attenti o comunque consapevoli rispetto a queste tematiche. Per quanto riguarda il nostro paese ad esempio, la ricerca ha evidenziato che siano i settori food, fashion e utilities quelli più all’avanguardia da questo punto di vista. Per quanto contro intuitivo possa sembrare, l’edilizia è invece uno di quelli in cui l’ignoranza in tema ambientale regna maggiormente sovrana, nonostante sia un settore sovente interessato da iniziative di sostegno in termini di eco incentivi e bonus statali di vario tipo – vedasi ad esempio il recente superbonus facciata del 110% che sarà abolito dal prossimo anno.
In ogni caso, tra le misure poste in essere dalle aziende più virtuose si possono elencare l’autovalutazione e calcolo del carbon imprint (ovvero l’indice di emissioni di gas serra espresso in tonnellate di CO2 equivalente (ovvero prendendo come riferimento per tutti i gas serra l’effetto associato alla CO2) e la validazione da parte di SBTi (Science Based Target initiative, un’iniziativa che coinvolge oltre 1.000 grandi aziende mondiali nella lotta comune al cambiamento climatico) di obiettivi di riduzione delle emissioni.
This post was published on 18 Dicembre 2023 6:30
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