Con l’avvento del nuovo millennio, nonostante i grandi passi in avanti fatti in ambito civile, giuridico ed economico, moltissime persone in tutto il globo soffrono ancora di una condizione estremamente debilitante: la povertà. Per quanto questa piaga sociale fosse principalmente un problema dell’Europa d’inizio Novecento, la povertà è ritornata a bussare alla porta in molti stati del vecchio continente soprattutto dopo la fine della pandemia e della conseguente crisi scaturita. Una delle soluzioni avanzate in questi anni è il cosiddetto reddito di base universale: ma è davvero la soluzione? Scopriamolo.
Con il suddetto termine si intende praticamente una somma di denaro concessa a tutta la cittadinanza all’interno di uno stato. Grazie a questa entrata fissa accessibile a tutti, si riuscirebbe – almeno in linea teorica – a contrastare pesantemente la povertà, permettendo alle persone di impiegare il proprio tempo in altre attività quali lo sviluppo di nuove competenze, ottenimento di nuovi titoli di studio o ricerca di lavori che effettivamente soddisfino l’individuo.
Una soluzione simile è stata adottata anche in Italia, grazie al Movimento 5 Stelle che introdusse una sua variante chiamata reddito di cittadinanza: ovvero una somma di denaro erogata ogni mese, accessibile principalmente a coloro che sono senza lavoro e in condizioni economiche precarie, allo stesso tempo permettendo anche alle persone di focalizzarsi sulla ricerca di un nuovo lavoro (grazie anche a corsi e incontri). Tuttavia a causa dell’instabilità del governo pentastellato il reddito di cittadinanza non è mai arrivato al suo pieno potenziale e per questo è stato ampiamente criticato, specie dagli ambienti di destra.
Che lo si voglia o meno, nel corso degli anni il numero dei sostenitori del reddito di base universale non hanno fatto altro che crescere a livelli esponenziali, in maniera estremamente rapida in tutto il mondo. Una delle principali motivazioni a sostegno di questa soluzione riguarda la possibilità di rendere accessibile a tutti l’istruzione e permettendo così un accesso maggiore all’università e ad altri corsi (come per esempio quelli proposti all’interno degli ITS). Allo stesso tempo garantirebbe anche una vita meno stressata, avendo la certezza di un’entrata costante nel corso del tempo e permetterebbe anche di evitare lavori ampiamente sottopagati, una delle piaghe del mondo lavorativo del secondo millennio.
Tuttavia non mancano i contrari. Costoro hanno identificato come problematiche principali le seguenti: nessuno vorrebbe più lavorare, le aziende si troverebbero in difficoltà per mancanza di dipendenti e di conseguenza ne soffrirebbe l’economia dello Stato. Per l’ultimo punto preso in esame, questo deriverebbe dal fatto che diminuirebbero le entrate derivanti dai guadagni delle aziende e dagli stipendi dei dipendenti, ma anche perché una soluzione di questo tipo costerebbe molto per lo stato: per quanto concerne l’Italia, facendo delle semplici stime, la concessione del reddito di base universale costerebbe 480 miliardi (il 24,5% del PIL).
Ciononostante, nel corso degli ultimi venti anni sono stati mandati avanti diversi esperimenti in alcuni paesi del globo volti proprio a verificare la validità di questo reddito. Facendo alcuni esempi, negli USA il progetto è ancora attivo in Alaska e si è assistito ad un miglioramento delle condizioni di vita e ad una crescita della fecondità della popolazione. Successivamente abbiamo l’India, dove l’esperimento si è svolto tra il 2011 al 2012 in una sola regione e con un numero limitato di beneficiari (6.000 persone). Grazie all’introduzione del suddetto reddito si è assistito ad un miglioramento delle condizioni igienico sanitarie, della nutrizione e della frequenza scolastica. Appunto per questo, i dati ottenuti sono parecchio rassicuranti.
This post was published on 25 Luglio 2023 17:00
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