Final Fantasy XVI, la sedicesima e controversa storia di Square Enix pubblicata da appena un mese, è un action GdR supportato da una storia eccellente e minuziosamente scritta, dove gameplay ed evoluzione della narrativa si intrecciano per raccontare le vicende di Clive Rosfield e del regno di Valisthea. Un gioco che, come sempre succede in questi casi, ha creato una spaccatura che si trascina ancora adesso e probabilmente terrà più banco dell’infausto ultimo capitolo di Final Fantasy VII Remake (Heartless gigante, nel caso non ve lo ricordiate).
Tra le diverse ragioni, tutte fortemente discutibili, all’inizio è emersa molto la sua incredibile somiglianza con Game of Thrones, al punto da far pensare che forse gli autori farebbero meglio a non parlare mai di cosa li abbia ispirati – pena finire nel tritacarne delle news, o degli editoriali, dove se anche un personaggio respira diventa automaticamente riconducibile a uno del materiale al quale ci si è appoggiati. A questo proposito è opportuno sottolineare, come riportato nella nostra intervista a Yoshida, Koji-Fox e Minagawa, che la prima fonte di ispirazione è stata Il Signore degli Anelli, al quale è poi seguito GoT in quanto baluardo più conosciuto e mainstream del fantasy medievale per merito in particolare della serie televisiva.
Considerato che l’obiettivo di Business Unit III era creare un gioco che si rivolgesse soprattutto a un pubblico occidentale, non stupisce che la serie HBO abbia avuto un ruolo fondamentale soprattutto nella gestione di toni, inquadrature e diversi altri elementi di taglio registico, oltre che in parte narrativo. Ne deriva dunque una serie di spunti e materiale atta a creare una storia che avesse carattere più realistico e maturo, rispetto all’approccio più favolistico ed “edulcorato” dei capitoli precedenti a Final Fantasy XIII. Prima che qualche appassionato si sollevi con i forconi, sì, Final Fantasy è tutt’altro che nuovo all’introduzione di temi adulti e/o profondi ma converrete con me che la maturità di un medium – e nel caso specifico di una serie – passa anche da come e in che misura sceglie di mostrare queste tematiche: la brutale crudezza con cui Final Fantasy XVI lo fa è ciò che lo rende così verosimile e, appunto, maturo.
Ritornando a noi, va da sé che il contributo delle ore spese ad analizzare GoT non è stato altro che questo: un contributo, atto a potenziare la narrativa di Final Fantasy, con personaggi che intrecciano archetipo e sfumature, e non del materiale da copiare. Un’evidenza che emerge in modo evidente nelle 40-60 ore stimate che possono servire a completarne e viverne la storia.
A questo proposito, prenderemo come riferimento l’articolo di IGN in cui sono comodamente raccolti esempi del parallelo tra GoT e Final Fantasy XVI, per mostrare come quest’ultimo superi ed arricchisca certi personaggi, con la filosofia di crescita personale che accompagna da sempre l’intera saga. Dovendo addentrarci nei dettagli, premettiamo che ci saranno spoiler anche importanti. Se siete indifferenti a riguardo e cercate anzi un’ulteriore motivazione per acquistare Final Fantasy XVI, oppure lo avete già giocato e finito, proseguite senza timore.
Poiché l’analisi parte dai raffronti di IGN, consigliamo prima la lettura dell’articolo segnalato.
Un parallelismo, dovuto al “best boi” Torgal, ai capelli neri, all’odio della madre e (senza un vero perché) all’arma che fedelmente lo accompagna, è quello tra Clive Rosfield e Jon Snow.
Il loro inizio è dissimile: dove per Jon Snow c’è subito una distanza con gli Stark, Clive è ammirato, rispettato e reso partecipe dal padre Elwin. Solo la madre Anabella lo distanzia, provando ribrezzo per il fatto che il primogenito (in genere il più privilegiato e degno in quanto primo discendente diretto, in epoca medievale) non ha ricevuto la benedizione della Fenice.
L’odio di Anabella – che è diverso dal disprezzo di Catelyn verso Jon – è dunque unicamente legato a casta e prestigio, come peraltro ammette lei stessa nel confrontarsi con Clive a Sanbreque. La colpa sarebbe non aver elevato la madre a uno status dovuto, sottolineando una volta di più come Clive prima e Joshua poi, agli occhi di lei, non sono altro che strumenti per raggiungere una posizione. Non bastano capelli neri, un lupo e un rapporto materno difficile perché due personaggi si somiglino: il background e la caratterizzazione, nonché gli eventi che li coinvolgono, sono il vero discrimine e anche qui ci sono evidenti differenze.
Mentre Jon Snow non cerca la propria vocazione, Clive invece la insegue sin da ragazzo, come Scudo della Fenice, e anche successivamente abbracciando gli ideali di Cid per diventare lo “scudo dell’umanità” con i nuovi poteri conferitegli. C’è dunque un fil-rouge nel percorso di Clive, che è quello di proteggere: dapprima solo il fratello, poi il mondo intero, benedetto da poteri che vanno oltre quelli della Fenice: una benedizione che è più una maledizione, se andiamo a vedere i motivi per cui è in grado di portare in sé i poteri di più Eikon, ma che lui ribalta a proprio favore facendone il suddetto scudo e dunque adempiendo a una volontà che ha sempre mostrato fin da giovane. “I’m a shield of Rosaria”, dice prima di sfidare la potenza di Bahamut creando un muro di fiamme per proteggere Jill e Joshua, “and I will do my duty”.
Laddove Snow affronta il mondo di Westeros un po’ in balia di quel che gli succede, spesso ottenendo onori che non vuole come il comando della Guardia Nera o il titolo legittimo di erede al Trono di Spade, ma reagisce agli accadimenti per il bene comune, Clive imbraccia i suoi ideali e cavalca gli eventi che lo porteranno a trovare il suo posto nel mondo di Valisthea, sempre davanti a tutti gli altri per proteggere ciò che ama o per la giustizia. Nel farlo, capita che entri in conflitto con i suoi compagni, i quali lo ammoniscono di “non fare tutto da solo”.
Clive supera Jon Snow raggiungendo la fine del suo viaggio di crescita, dove la sua identità e il suo “ruolo” di Mythos si congiungono in una sola lama per fendere la tenebra che Ultima getta su Valisthea. Nel frattempo, Snow rimane ancorato al suo essere Jon Snow il bastardo più che diventare un attore in prima persona nel corso dei non pochi eventi che lo coinvolgono, senza imbracciare realmente i suoi ruoli di volta in volta come strumento del bene comune.
Il paragone tra Elwin Rosfield e Ned Stark può sembrare immediato ma si tratta di due destini e personalità molto diverse. Elwin ha ben chiaro quale sia il suo ruolo, sia politicamente che umanamente, e agisce in maniera intelligente cercando di scansare le ire e le mire della moglie Anabella, soprattutto per accudire e preparare i suoi figli al trono. L’unica cosa che non poteva prevedere era il tradimento di lei, mosso da ragioni puramente di apparenza. A Elwin viene riconosciuto, tra le casate di Valisthea, essere stato il primo a trattare i Marchiati con maggior rispetto, nonché a muoversi per riconoscere loro una vita migliore e maggiori diritti: un’eredità che sarà Clive a portare avanti, lottando per un mondo libero dal giogo dei cristalli
Ned Stark, d’altro canto, non si sbilancia nemmeno nei confronti dei figli, facendo diventare le sue vesti di Guardiano del Nord la sua identità. La poca flessibilità nel modo di conciliare la politica e i suoi ideali, in una corte che brama solo il potere, lo rende facilmente un bersaglio di una congiura, non avendo neppure l’onore, come Elwin, di cadere in battaglia (sebbene questi venga ucciso nella caduta di Porta Fenice e in un attimo di distrazione per proteggere Joshua).
Jill Warrick. Prima garante politica, poi schiava, poi servitrice volontaria, dove servitrice non va letto come “servitù”, ma come “servizio”: all’inizio si trova in una situazione imposta ma in cui viene trattata bene; segue la schiavitù, tredici lunghi anni dove viene sfruttata come mero “strumento” per i suoi poteri da Dominante di Shiva, usando come ostaggi persone innocenti e indifese per tenerla a bada. Infine il servizio, cioè i suoi talenti in aiuto e al fianco dei più deboli, dello stesso Clive e della sua missione, sempre in prima linea.
Jill spicca, rispetto alla controparte parallela indicata in Theon Greyjoy, per essere stata attrice attiva nelle sue fasi di “controllo” della propria vita. Entrambi garanzie di pace: Theon a causa della rivolta dei Greyjoy, Jill a causa delle continue incursioni di suo padre, l’Argenteo. Jill viene cresciuta come un membro della famiglia Rosfield, Theon… un po’ meno, perché avere un cognome diverso, nel mondo di Westeros, come sappiamo è una macchia indelebile.
Jill poi diventa schiava, mentre Theon deve scegliere tra la morte e il servizio della sua casa, per diventare poi un burattino senz’anima a causa dei Bolton. Mentre Jill è conscia e torturata dal dolore di non poter far nulla che essere un'”arma”, specie perché i Sangueferreo usano innocenti come ostaggi per la sua ubbidienza, Theon viene rotto psicologicamente, senza aver voluto prendere davvero posizione per una delle due famiglie di cui ha fatto parte.
La redenzione arriva successivamente, quando sceglie di tornare a “essere” uno Stark, invece di servirli. Jill al contrario, non appena liberata, va direttamente a cercare vendetta sui suoi carcerieri, uccidendo con le proprie mani il loro capo e poi scegliendo liberamente di concedere parte dei suoi poteri a Clive, in un’accorata promessa di fedeltà. Il tutto prendendo sempre in mano se stessa, nel momento in cui l’occasione le viene presentata, e non rinnegando mai la propria fedeltà ai Rosfield, contrariamente a Theon la cui bandiera cambia facilmente.
Torgal, il fedele compagno animale di Clive, è paragonato a Spettro, il meta lupo di Jon Snow.
Sono entrambi trovatelli tuttavia, oltre ad essere un mero simbolo come Spettro, Torgal brilla di destino: fa parte di una razza specifica di lupi, discendenti da Fenrir, che storicamente accompagnano Shiva e la sua Dominante. Poiché però Clive se ne prende cura, Torgal sceglie come proprio padrone Clive, mettendo in seconda posizione Jill, la sua “padrona originaria”.
Mentre poi Spettro latita, lasciando Jon Snow per fatti propri, Torgal non ha mai smesso di cercare Clive in tredici anni, portando tutto ciò che avesse il suo odore nel loro rifugio segreto sull’isola. La sua fedeltà è talmente estrema tanto da trasformare la mancanza di Clive in un vero e proprio dolore fisico; finalmente riuniti, lo proteggerà con quella ferocia di chi non vuole soffrirne di nuovo la perdita e lo stesso farà con i suoi alleati – dei quali assorbe l’etere per farne un’ulteriore arma con cui proteggerli. Decisamente meritevole del titolo di “best boi”.
Sebbene sia stato individuato un grossolano parallelo tra Sam Turly e Gav, per un solo evento simile, c’è molto di più dietro quest’ultimo. Un esploratore dal “naso fino”, se vogliamo molto più teso a somigliare a Bronn il mercenario che al mite e impacciato compagno di Jon Snow.
Similmente a Bronn, con una storia familiare difficile, laddove Bronn decide di indirizzare la sua vita con sarcasmo e cinismo utilitario, Gav si distacca verso l’ambizione che le cose possano migliorare e trova in Cid la sua occasione, contestualizzando la figura base di Bronn con ironia, positività e autodeterminazione – nonché un pessimo tempismo. Chi ha giocato, sa.
Goetz è un personaggio che ispira tenerezza e c’è da fare attenzione a non confondere la sua ingenuità con stupidità o incapacità – un errore nel quale è fin troppo semplice cadere.
Messo in parallelo a Hodor per la stazza e per il ruolo di “braccia” nei confronti di Charon e del gruppo, mostra invece come la cura della famiglia del Nascondiglio può trasformare un omone intrinsecamente poco sveglio in una risorsa fondamentale (oltre a essere un mercante sembra abbia acquisito da Blackthorne conoscenze da fabbro) e come questo ne favorisca un percorso personale di crescita: lo stesso che porterà Goetz ad autodeterminarsi e capire la necessità di crescere, soprattutto per la sua Charon, che dopo averlo comprato dai genitori negligenti ha sempre agito da madre nei suoi confronti – a dispetto dei modi burberi spesso di facciata.
Hodor, relegato al ruolo di servitore, e anzi offeso senza poi ricevere alcun trattamento migliore dopo aver scoperto come mai è stato ridotto così, avrebbe meritato un percorso di questo genere, portandolo all’autorealizzazione e non a morire come semplice strumento per la famiglia Stark. Peraltro, privato di qualsivoglia giusto onore a causa di ciò che gli viene fatto erroneamente da Brandon. Di nuovo, non bastano vaghe somiglianze per parlare di copia.
Un pout-purrì di parallelismi, su questo personaggio che incarna l’archetipo del Paladino. “Targaryen” per il fatto di essere Bahamuth e di impazzire per la mancata concessione del trono, Baratheon per il fatto di avere una relazione omosessuale, addirittura “Lannister”.
Dion Lesage, come detto, è IL paladino. L’uomo chiamato “servizio”, che sacrifica la sua forza vitale per trasformarsi in Bahamut pur di servire e proteggere il suo popolo, nel momento in cui Odino scende in battaglia. Non parla di “debiti” come i Lannister, che li contano per ricordare alle persone vicine la loro posizione e il loro prestigio, ma riconosce quanto la gente fa per lui, ne tributa l’importanza e sente il peso dei suoi errori come colpe da espiare: da qui i suoi “debiti”.
Una differenza che contribuisce a rendere questo paragone molto superficiale.
Non è però finita qui: Dion non impazzisce per un trono come i Targaryen, come viene evidenziato, bensì per aver ucciso involontariamente suo padre nel tentativo di salvare lui e il popolo di Sanbreque dalla presa sempre più reale che spettrale di Ultima.
La furia che Bahamut scatena sulla città non è frutto di una scelta, come per Daenerys che incendia perché tutti colpevoli equamente in un delirio di onnipotenza e paranoia: come spiegato più volte, un evento traumatico può far trasformare un Dominante nel proprio Eikon senza però averne più controllo e ciò che porta Dion a perdere la ragione è aver macchiato le proprie mani con il sangue di chi, invece, voleva salvare. A lui, del trono, interessa relativamente e solo nella misura in cui possa essere l’ennesimo mezzo con cui mettersi al servizio del suo popolo.
Infine, il rifugio proposto dal suo braccio destro nonché guardia del corpo, Terence, che non lo vede meramente come un’arma bensì come una persona prima ancora che suo capitano. Nulla a che vedere con la storia di Renly Baratheon, qui c’è il superamento in un amore puro, rifugio di umanità e affetto, negati a Dion in quanto non è un uomo ma soltanto “Bahamut”.
Kupka e Benedikta. Barnabas Tharmr. Cid, Dion, Jill e Clive. Fronti diversi che interpretano in maniera altrettanto differente cosa voglia dire essere un Dominante. Per spiegarne la differenza: Kupka viene messo in un parallelo forzato con Jaime Lannister in quanto perde le braccia nella sua arroganza, un evento che lo rende inutile in battaglia e ne castra l’orgoglio.
Mentre per Jaime si tratta di uno scherzo del destino, poiché ha perso la mano agendo per il “bene” e proteggendo una persona, Kupka viene punito a causa della sua ira cieca e del suo delirio di onnipotenza. Le mani, con cui tocca, gode dei piaceri e della stessa Benedikta, nonché epitome del suo potere divino, gli vengono mozzate e questo lo renderà ancora più vulnerabile – non solo fisicamente. Storie del tutto diverse e molto più ricche nel raccontare come viene vissuto il potere a Valisthea, rispetto alla parabola del rampollo dei Lannister.
Ultima. Un antagonista controverso che ha scatenato non poche polemiche e divisioni. Un dio/semi-dio, assente, insofferente nei confronti dell’umanità ed egoista, che si nasconde dietro le sue pedine e le sue convinzioni. Il Re della Notte. Una sorta di vendetta a tempo, lasciata dai precedenti indigeni di Westeros per punire i primi uomini.
Mentre il secondo è una mera calamità da cui tutti si devono difendere, indipendentemente dai loro interessi, Ultima è molto meno “assoluto” nella sua posizione: promette salvezza, controlla reami, sfida Clive e i partecipanti di questo conflitto sia in battaglia che nelle loro convinzioni, per i propri egoistici scopi in una visione distorta ma “logicamente” inattaccabile.
C’è un paragone, molto facile in apparenza, che nasconde l’intelligenza della storia di Final Fantasy XVI. I Marchiati, esseri umani capaci di utilizzare la magia, sono schiavi, esattamente come in Essos.
Sorge infatti una domanda spontanea: perché non si sono già ribellati o perché non sono rispettati, se sono così tanto potenti? Perché gli schiavi di Daenerys sì e loro no?
Perché l’intero mondo ha deciso che fossero schiavi, in un accordo tra nazioni, per legge. Inoltre, una rivolta sarebbe inutile: se decidessero di rivoltarsi usando la magia, la loro vita sarebbe accorciata drasticamente, diventando una non-vita; un’implacabile esistenza a tempo.
Mentre Daenerys guida gli schiavi in battaglia per la loro libertà, a Cid non interessa rivoltare l’ordine costituito od esercitare vendetta, quanto dar loro la possibilità di vivere una vita normale e, in caso, di servire la causa a difesa e protezione dei Marchiati, non contro i padroni. Un’eredità, la sua, che verrà raccolta ed estesa da Clive in una lotta per consegnare a tutti loro il diritto di vivere e morire come credono.
This post was published on 27 Luglio 2023 19:30
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