Persona 5: The Royal e Catherine: Full Body, due nuove edizioni di titoli di successo della software house Atlus saranno oggetto di una mostra artistica a Los Angeles dal 17 agosto al primo settembre. La galleria mostrerà opere create dai fan di Persona e Catherine e sarà possibile acquistare merchandise sui relativi titoli. Riportando la notizia ad alcuni amici ho avuto responsi del tipo: ok, ma cosa hanno a che fare i videogiochi con l’arte?
La discussione mi ha fatto riflettere nuovamente sulla questione “Videogiochi ed Arte”, un accostamento sempre più comune, a tal punto che qualcuno che li considera come “l’Ottava Arte”. Non tutti concordano con questa definizione, soprattutto perché, con i suoi poco meno di cinquant’anni, quello videoludico è un medium ancora relativamente giovane. Possiamo parlare di arte nei videogame in vari ambiti come quello visivo, narrativo e musicale, sia in senso stretto che in senso “derivato” (l’esempio riportato dalla news). Quello che proverò a fare è un discorso che procede per step e cercherò di renderlo il più semplice e sintetico possibile.
Il nostro medium preferito nasce, come lo conosciamo, all’inizio degli anni ‘70, principalmente grazie a progetti universitari, come quello di Stanford che portò alla realizzazione di Computer Space, uno dei primi arcade della storia: uno shooter nel quale prendevamo il controllo di un’astronave che aveva l’obiettivo di distruggere dei dischi volanti. Non credo sia necessario specificare l’eccessiva basilarità della grafica: i vettori rappresentavano la navicella e i dischi volanti. Tale semplificazione, per ovvie esigenze di hardware, in un certo senso era già un processo creativo di tipo visivo. Come in un dipinto moderno, da quei pochi pixel, il giocatore ricostruiva la realtà. Un processo che abbiamo involontariamente fatto fino allo scorso decennio, quando la potenza dei pc e delle console ha finalmente permesso di realizzare ambienti sempre più vicini al fotorealismo, con le dovute eccezioni, ma a questo arriveremo dopo.
Il discorso introduttivo trova già alcuni punti di contatto tra medium videoludico e l’arte, tuttavia siamo ancora lontani dal poter giustificare la definizione di “Ottava Arte”. Il fattore principale risiede nei soliti, banali e retrogradi tabù nei confronti dei videogiochi. Se come me videogiocate sin da quando eravate piccoli, avrete sentito più volte frasi del tipo “I videogiochi sono violenti e per questo motivo inducono alla violenza” seguito con il tempo da “I videogiochi sono da bambini, se ci giochi sei infantile”. Ora non perdo tempo a spiegarvi il motivo per cui entrambe le affermazioni, oltre ad essere false, sono antitetiche (come fa qualcosa di violento ad essere da bambini?). Considerazioni, apparentemente di scarso valore, ma la cui propaganda ha rallentato l’evoluzione del settore. Insomma, non che il mercato videoludico non esistesse, ma era qualcosa destinato alla nicchia.
Solo di recente è iniziata a diffondersi una linea di pensiero collettivo che vede i videogiochi come qualcosa di più che un misero passatempo per bambini. Le cause sono molteplici, ne citerò due, che ritengo emblematiche: l’uscita di Nintendo Wii e la diffusione di internet su larga scala. Per quanto riguarda Wii, si tratta di una console che non necessita di presentazioni: grazie all’innovativa idea del motion controller è stato possibile creare un parco titoli appetibile per un numero più vasto di utenti. Quello che è successo con la bianca console di Nintendo è frutto di un’accurata operazione di marketing, basata su una preliminare analisi di mercato. Il pubblico adulto, fino ad ora di nicchia, si è avvicinato sempre di più al videogioco grazie a titoli quali Wii Sports, Wii Music et similia, per poi passare a quelli tradizionali. Certo, magari non saranno tutti hardcore gamer, ma è un dato di fatto che il numero di videogiocatori di età superiore ai 20 anni è aumentato nell’ultima decade.
A questo ha contribuito, come accennato prima, anche la diffusione di internet che ha permesso agli utenti di conoscere la natura del videogioco, a trovare altre persone con questa passione in comune e a confrontarsi, riflettere e analizzare il fenomeno. Qualsiasi arte lavora a sua volta su se stessa e internet è uno strumento che sicuramente può incentivare il processo.
Al giorno d’oggi l’industria videoludica non è più una nicchia ma un florido mercato che fattura il doppio del cinema. Videogiocare è una moda, ma per quanto riguarda l’arte? Come spiegato all’inizio il gaming è stato sempre arte. Intrinsecamente il suo valore artistico è rimasto sempre il medesimo. Quel che è cambiata è la nostra percezione. Perché si sa che l’arte rispecchia sempre il periodo storico in cui si sviluppa.
Torniamo al discorso iniziale parlando di aspetto grafico: il fotorealismo è un altro motivo che ha garantito l’adesione della massa. Sembra di assistere ad un film, con l’aggiunta dell’interattività. Per questo, in teoria, potremmo già considerare il videogioco qualcosa che include la settima arte, il cinema. Andiamo avanti: ricordate quando parlavo dei primi videogiochi, quelli in pixel art? Oggi, benché si sia raggiunto il picco in ambito di grafica, si utilizzano ancora stili come quello della pixel art, il low poly o il cel shading.
La semplificazione grafica al di là delle possibilità tecniche della macchina nasconde un grande messaggio artistico, simile a quella di un dipinto o di un film di animazione.
Per esempio, l’utilizzo della pixel art rievoca una sensazione nostalgica e permette, con semplici immagini, di trasmettere emozioni non meno profonde di quelle di un videogioco con grafica spacca mascella. Un discorso simile si può fare dietro la grafica in cel shading, che magari da al gioco un tocco “fiabesco”, come avviene per The Legend of Zelda: Breath of The Wild. Al di là dell’engine vero e proprio, un’altra caratterizzazione stilistica viene data dall’aspetto dell’interfaccia utente e dalle transizioni. Un esempio perfetto in questo ambito è, guarda caso, Persona 5. In conclusione, anche la possibilità di poter adottare differenti stili grafici è testimonianza che dietro il videogioco ci sia arte.
Durante la stesura del testo avevo iniziato a parlare di “gameplay puro”, dopodichè mi sono reso conto che ciò non ha senso: il gameplay è l’aspetto meramente ludico, immutabile. Un gioco che oggi è a piattaforme lo sarà anche domani: può cambiare la sua contestualizzazione grafica e nell’ambito dello storytelling (che molto spesso erroneamente confondiamo con lo stesso gameplay). A tal proposito mi piacerebbe analizzare l’evoluzione dell’elemento narrativo in funzione del gameplay.
Lo storytelling nasce per esigenza di dare all’utente un minimo di interesse e immedesimazione. Le prime storie videoludiche sono molto basilari ma con il tempo hanno acquisito sempre più importanza e profondità. Siam passati dal salvataggio di una principessa nel regno dei funghi in Super Mario, a storie secolari di vampiri con Castlevania, a giochi di azione con un messaggio contro la guerra come la saga di Metal Gear Solid. C’è da dire che lo storytelling varia in funzione del genere: non ci aspettiamo di vedere una storia in un gioco sportivo, altresì è necessario qualcosa di più profondo ed intrigante per un’avventura grafica.
Cosa ha contribuito a far evolvere lo storytelling? Identifico due fenomeni essenziali che hanno lasciato ai developer maggiore libertà narrativa: il primo è il passaggio massivo che è avvenuto dal gaming da sala giochi a quello casalingo. Lo scopo principale di un cabinato è quello di spillare denaro al giocatore, non giriamoci intorno. Le strade da percorrere erano limitate, se qualcosa andava storto si andava incontro al “Game Over” e all’”inserisci il gettone”. Il secondo è la nascita dei primi giochi con i salvataggi che ha permesso lo sviluppo di titoli più lunghi ed elaborati.
I due fenomeni hanno dato i primi risultati negli anni ‘90, quando iniziarono ad esserci giochi longevi e con finali multipli. Superata infatti l’idea di “Game Over”, differenti azioni potevano portare a finali differenti: la creazione della nostra storia, fatta di scelte compiute da noi. Ricordo quando giocai per la prima volta a Metal Gear Solid: decisi di arrendermi alla tortura di Revolver Ocelot, con il conseguente finale che vedeva la morte di Meryl. La cosa mi fece sentire dannatamente in colpa: avevo compiuto una scelta che aveva portato alla fine di un percorso. Avrei potuto compierne un’altra e avrei avuto un risultato differente. Anche questa, amici miei è arte.
Il parallelismo con il cinema è legato anche allo storytelling: i gameplay dei giochi sono intervallati da cutscene, nelle quali vengono narrati eventi della storia ma il personaggio non è controllabile. Questa esigenza interrompe sicuramente il ritmo di gioco, tuttavia un titolo innovativo eliminò questo problema. Sto parlando di Half Life: per la prima volta tutto era narrato durante il gameplay, anche le cut-scene erano giocabili. Il risultato era un livello di immedesimazione senza precedenti. Trovo quella del gioco di Valve ancora oggi una delle migliori evoluzioni ludo-narrative di sempre.
Ci sono poi titoli come i Souls,nei quali la storia non ci viene raccontata in modo diretto, tramite filmati, ma siamo noi a doverla scoprire esplorando il mondo, trovando vari oggetti. Questo atipico stile narrativo permette di rimanere focalizzati sul gameplay.
Lo storytelling è in continua evoluzione: ci sono giochi nei quali addirittura non esiste una trama prestabilita, ma è lo stesso giocatore a creare la sua esperienza giocando. Mood del genere sono e saranno sempre più alla base dei nuovi titoli open world di Ubisoft. Esistono poi giochi che ci permettono di creare interi livelli, come Little Big Planet, Dreams o il recente Super Mario Maker 2.
Insomma, anche se presente in minima parte, l’elemento narrativo nel videogioco è un altro esempio di arte. L’unico monito che voglio lanciare al mondo videoludico in questo ambito è il giusto equilibrio tra narrativa e gameplay. La massificazione e la popolarità del videogioco sta portando a titoli dove tale equilibrio è sbilanciato a favore della narrativa. Questo è un male: giochi come Until Dawn sono sicuramente interessanti dietro pop-corn e patatine, ma siamo sicuri che siano giochi e non film?
The last but not the least (l’ultimo ma non la meno importante) è l’elemento sonoro\musicale. Anche se qui c’è poco da dire: la musica, di per sè già un’arte, assieme agli effetti sonori accompagna le nostre partite. Dall’era dei chip a 8bit a oggi, ascoltarla è sempre gradevole in quanto arricchisce e contestualizza il gameplay. Esistono poi giochi interamente basati sulla musica, come i rhytm game.
Con questo ragionamento a step, o deduttivo, vi ho spiegato perché i videogiochi possono essere considerati l’ottava arte. Ne contengono di precedenti (narrativa, cinema, musica) e le rielaborano insieme, combinandole anche con l’aspetto ludico. Così come i film ci fanno provare sensazioni, magari anche in modo più forte data l’immedesimazione. Si tratta poi di un’arte che genera arte (il senso derivato), riprendendo l’esempio della news iniziale: una mostra su Persona 5 e Catherine.
Sebbene i videogiochi abbiano raggiunto una certa rilevanza nel mercato (quasi come il cinema, benché fatturino il doppio) per lo più restano un passatempo. Quanto dovremo ancora aspettare prima che raggiungano agli occhi di tutti il medesimo livello in ambito artistico?
This post was published on 21 Luglio 2019 11:34
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