Prima di addentrarci in una questione che definire spinosa è un eufemismo, occorre fare una premessa: chi vi scrive ha 32 anni e gioca da ben più della metà della sua vita. Questa “esperienza” (o vecchiaia, fate voi) mi ha dato la possibilità di trovarmi nell’epoca più florida del gaming, quella in cui escono più tripla A di quanti se ne possano comprare, quella in cui anche un piccolo studio indipendente può arrivare a pubblicare il suo videogame, quella in cui l’utilizzatore finale, il gamer, riveste un’importanza sempre maggiore.
Da mero cliente, il videogiocatore è oramai diventato il centro delle strategie di marketing di qualsiasi publisher, assurgendo, grazie anche all’avvento dei social network, ad un ruolo equiparabile a quello di un critico, le cui parole debbono sempre essere prese in considerazione ed i cui giudizi sono più affilati di un rasoio.
L’impatto dei gamer sul mercato videoludico è sempre più rilevante nelle scelte di un publisher, che spesso si ritrova a fare i salti mortali per accontentare un pubblico sempre più esigente, esoso e, diciamolo chiaramente, incontentabile. I commenti acidi e le polemiche sono diventati oramai l’abitudine su tutte le piattaforme social, arrivando ad attaccare e demolire il lavoro di decine di persone con poche parole.
Da queste considerazioni vorrei far partire una riflessione che vuole coinvolgere sia giocatori che “addetti ai lavori“, iniziando dal caro, vecchio slogan…
Il videogiocatore ha sempre ragione?
Ok, forse il motto è un po’ diverso da come lo ricordavate, ma i tempi cambiano. Avreste mai pensato, negli anni ’80 e ’90, di restituire un gioco al vostro negoziante di fiducia perché ci avete giocato e non vi è piaciuto? Provate ad immaginare la situazione: vi avrebbero praticamente riso in faccia, e con tutte le ragioni del caso. Ebbene, a dispetto di qualsiasi previsione, nella maggioranza degli store, fisici ed online, è possibile “dare indietro” un videogame, ottenendo un rimborso completo, senza neanche dover specificare il motivo della restituzione.
Tutto questo senza ovviamente considerare che, tra news, approfondimenti, trailer, gameplay, e chi più ne ha più ne metta, sappiamo tutto dei nostri giochi preferiti ancora prima che escano, essendo perfettamente consapevoli di costa stiamo per comprare. Le libertà e le possibilità di un giocatore del 2019 non sono assolutamente paragonabili a quelle di un giocatore degli anni ’80 e ’90.
Eppure, forse tutte queste libertà, tutto questo voler venire incontro alla propria clientela, ha finito col compromettere un rapporto in cui i ruoli sono sempre più confusi. In base quanto ora scritto, occorre ricordarci che no, il cliente non ha sempre ragione, soprattutto quando vuole arrogarsi diritti che non gli spettano, e soprattutto quando, a causa di parole e “petizioni” sconsiderate, si finisce col gettare il bambino con l’acqua sporca.
Dammi una petizione e ti solleverò il mondo
Volendo trovare il bandolo della matassa, il fenomeno di cui stiamo parlando può dirsi iniziato sia con la nascita dei social che, soprattutto, con l’avvento del crowdfunding. Se i social hanno costituito e costituiscono la cassa di risonanza per tantissimi rant e polemiche di vario genere, il finanziamento diretto ha contribuito come nient’altro al mondo a mettere il giocatore al centro dell’industria videoludica.
Inutile dire quanto questo abbia contribuito a rendere lecito l’impensabile, dato che, così facendo, la community non è più l’insieme dei tuoi clienti, ma è a tutti gli effetti equiparabile ad un produttore, e Dio solo sa quante pretese assurde e quante manie di protagonismo ha un produttore!
Se la logica degli stretch goals è pericolosa, ma tutto sommato funzionale ad un progetto che fa della community il proprio fulcro, il discorso cambia completamente quando ci si sposta nel campo dei tripla A. Eppure, nonostante le logiche aziendali non dovrebbero essere intaccate dalle “turbolenze social“, spesso finiscono con l’esserlo eccome.
Qualcuno ricorda la querelle nata per il finale di Mass Effect 3? Bene, ed immaginate che, all’epoca dei fatti, una polemica nata fondamentalmente sui forum obbligò uno sviluppatore a rilasciare un DLC gratuito con un finale diverso, semplicemente perché la fanbase non aveva apprezzato quelli canonici.
Quando creare un videogame diventa un fanservice
Cosa non si farebbe per accontentare i propri clienti? Anche creare un videogioco “su richiesta”. Molte delle saghe che hanno fatto la storia del nostro medium preferito hanno costruito la loro fortuna creando il giusto mix e riuscendo a far sognare i gamer di mezzo mondo. Come molti sappiamo, però, il rovescio della medaglia consiste proprio nel dare ascolto a tutte quelle che sono le richieste dei fan, anche quando l’epopea di un eroe si è conclusa e non ha più niente da dare.
Uno degli esempi più eclatanti è rappresentato da Metal Gear Solid 4. Nonostante Hideo Kojima avesse più volte dichiarato la serie conclusa con il terzo capitolo, il quarto fu realizzato da Konami proprio sull’onda emotiva dei fan, che avevano chiesto a gran voce di poter giocare nei panni di Solid Snake ancora una volta. Ora, sebbene il gioco si sia poi rivelato essere un capolavoro, la magia non si è più ripetuta, per varie ragioni, con Phantom Pain, vera e propria pietra tombale su uno dei franchise più amati di sempre.
La vicenda fa sembrare ancora più assurde le critiche ricevute da Metal Gear Solid 2. Il secondo capitolo della serie aveva soltanto due colpe: la prima era quella di essere venuto dopo Metal Gear Solid, mentre la seconda consisteva nel suo protagonista. Raiden non aveva abbastanza carisma per prendere il posto di Solid Snake? Forse i suoi capelli lunghi e biondi non erano abbastanza “eroici”? Non è possibile dare una risposta a quanto detto, fatto sta che le reazioni dei fan furono unanimi: Metal Gear Solid 2 era il peggior capitolo della saga.
Fortunatamente, col tempo, il gioco è stato rivalutato, ed il suo valore effettivo è sotto gli occhi di tutti.
Quando la finiremo di essere degli incommensurabili str*nzi?
Quando è iniziato questo odio assoluto nei confronti di tutto quello che non ci piace? Perché sentiamo la necessità di ridurre a brandelli, con review bombing e commenti caustici, i videogame che non incontrano il nostro gusto o che, secondo la nostra infallibile opinione, sono sbilanciati? Perché il giocatore ha abbandonato la poltrona (o il divano) per diventare una versione videoludica di Vittorio Sgarbi ancora più acida, sboccata e spietata?
A cosa ci ha portato questo atteggiamento, questa spocchia di conoscere lo sviluppo dei videogame come le nostre tasche? Semplice: ad avere dei publisher che lavorano al servizio di un pubblico sempre più esigente, pronto a voltargli le spalle al primo accenno di novità, a degli interi studi di sviluppo che possono chiudere i battenti a causa di un flop commerciale, ad una sequela di trailer sempre più belli e “sbrilluccicosi“, ma che spesso non corrispondono al prodotto finale (qualcuno ha detto Anthem?).
Sperare di accontentare tutti è un’impresa impossibile, sia sui social che nell’industria videoludica, proprio perché ognuno di noi ha il suo grasso deretano placidamente adagiato nella propria camera dell’eco, e smuoverlo da lì costerebbe fatica e, soprattutto, metterebbe in discussione tutta una serie di “certezze” consolidate nel tempo.
Forse sarebbe veramente il caso di rivedere il motto “For the Players” e, sicuramente, sarebbe cosa buona e giusta imparare a rispettare il lavoro degli altri e a comportarci meno da stronzi; diciamocelo chiaramente: creare petizioni per ritirare DMC dal mercato, per riscrivere la stagione finale di una serie, o magari per cambiare il colore della pelle di una creatura mitologica, è quanto di più ridicolo si possa vedere nel 2019.