I videogiochi tornano sotto la luce dei riflettori del Bel paese. Motivo di tanta indignazione è la recente notizia di cronaca legata a un ragazzino di 14 anni di Crema, il quale soffre di dipendenza dai videogiochi da anni. Il “malato di PlayStation” – così denominato dalla stampa nostrana – ha infatti saltato ripetutamente la scuola per avere più tempo a disposizione da dedicare al suo passatempo preferito. Questo risvolto ha portato il Tribunale dei Minori di Brescia a togliere alla madre l’affidamento del figlio, in quanto accusata di negligenza.
Sebbene i toni iniziali facciano presupporre un articolo-crociata a favore dei videogiochi, in realtà vorrei addentrarmi meglio nel fenomeno della dipendenza e delle altre conseguenze legate al mondo videoludico, evitando però i toni drammatici e demonizzanti così tipici della stampa generalista italiana. Perché, come ben sappiamo, la vita non si divide in bianco e in nero, ma è fatta da un’incredibile scala di grigi.
La connotazione negativa che vede il videogioco come l’elemento scatenante di istinti violenti e anticonvenzionali ha origini trentennali. Già nel pieno degli anni Ottanta circolavano studi che legavano la violenza e l’aggressività all’attività videoludica, come il pamphlet The New High Tech Threat to Children redatto da Pamela Tuchscherer nel 1988.
In generale, la tesi principale diffusasi in quel periodo era la correlazione tra atteggiamenti violenti e l’esposizione a contenuti mediali di uguale intensità. In particolare il videogioco appariva come uno dei modelli più preoccupanti, data la sua capacità di simulare contesti verosimili attraverso l’interazione. Questa tesi era avallata da termini di un certo spessore, come la disumanizzazione cui erano soggetti i giocatori poiché trasportati in un’altra realtà, o come l‘eccitazione causata da sezioni di gioco brutali che provocavano una risposta intensa nei soggetti che vi erano stati sottoposti. Una visione decisamente allarmistica e che sicuramente contribuì a radicare l’accezione negativa che caratterizza tutt’ora il videogioco nell’opinione pubblica.
Tuttavia, andando oltre all’esagerazione – la quale deriva probabilmente dal fatto che negli anni Ottanta il mondo videoludico era per una nicchia davvero ristretta di persone – , queste teorie hanno messo in rilievo le conseguenze negative che può avere il videogioco. Queste sono state confermate da studi più recenti, come quello pubblicato su Molecular Psychiatry ad agosto 2017 a opera di Véronique Bohbot (Douglas Mental Health University Institute del Canada) e Greg West (Università di Montreal). Secondo gli studiosi canadesi, infatti, i titoli FPS (First Person Shooter) possono ridimensionare la massa di materia grigia nell’ippocampo. Per giungere a questa conclusione, sono stati registrati i processi cerebrali di 64 partecipanti, tra i 18 e i 30 anni, sottoposti a 90 ore di gioco dei principali sparatutto, come Call of Duty, Killzone, Borderlands e Medal of Honor. Altro dettaglio importante: nessuno dei partecipanti aveva mai giocato prima. I risultati finali dimostrano un’alterazione della massa dell’ippocampo, zona adibita alla navigazione spaziale e alla cognizione. Coloro che hanno una massa minore hanno più possibilità di soffrire di depressione, schizofrenia e di Alzheimer. È anche vero che ricerca mostra altre interessanti conclusioni, ma di queste ne riparleremo meglio in seguito per non frammentare il discorso.
Oltre alle conseguenze psicologiche causate da una costante esposizione a una determinato genere videoludico, vi è un fenomeno più generale ma altrettanto preoccupante che è quello della dipendenza dai videogiochi. Secondo una recente ricerca effettuata dall’Università del New Messico, il 6-15% dei giocatori americani può cadere nella dipendenza videoludica. Per alcuni studiosi tale processo è generato dalla struttura stessa del videogioco, in quanto il sistema di ricompensa in seguito al superamento di un obiettivo (un equipaggiamento più potente, soldi in-game, risvolti nella trama, nuovi livelli sbloccati, primo posto in classifica, ecc) invoglia il giocatore a investire il suo tempo giocando, mettendo in secondo piano altre priorità, più reali e importanti. La dipendenza dai videogiochi può avere conseguenze sia fisiche che psicologiche, e soprattutto sul breve periodo, ma anche sul lungo. Irritabilità, dolori articolari, fatica fisica e mentale si mischiano a tendenze di isolamento sociale, al mentire sul tempo speso a giocare, e all’ansia causata dall’impazienza di iniziare un nuova partita.
C’è inoltre chi guarda con timore alla presenza sempre più invasiva di loot box e microtransazioni all’interno dei giochi, che promuovono una gratificazione immediata attraverso l’ottenimento di una miglioria in cambio di soldi reali. La formula ha ricordato il gioco d’azzardo, e quindi un maggiore rischio di cadere nella (video)ludopatia. Lo dimostra l’indagine intrapresa dalla Commissione per il Gioco del Belgio nei confronti di Star Wars Battlefront II e di Overwatch, in seguito allo scoppio del caso delle microtransazioni nell’ultimo titolo di DICE ed Electronic Arts.
Non solo rischi, ma giocare ai videogiochi ha anche tanti effetti benefici. Primo fra tutti facilita l’apprendimento. Grazie alla sua capacità di simulazione e interazione, i bambini riescono a vivere con il videogioco un’esperienza attiva, il che favorisce la formulazione e l’attuazione di meccanismi adatti a superare determinati ostacoli. Lo diceva il linguista americano James Paul Gee nel 2007.
Questa forte impronta didattica del videogioco non è rilegata ai soli giovani, ma anzi ha permesso il consolidamento della Gamification, ovvero l’utilizzo di formule videoludiche per imparare nozioni tecniche da utilizzare nella vita reale e soprattutto professionale. Un esempio che calza perfettamente è l’iniziativa promossa da Sorgenia e Laborplay, incentrato proprio sul rapporto tra gioco e lavoro.
A differenza poi della visione comune secondo cui il videogioco favorisce l’isolamento, vi sono tesi che lo ritengono uno strumento di socializzazione che invoglia al confronto e alla collaborazione (Prensky 2006). Basti pensare all’incredibile eco che ha avuto Pokémon GO, che ha portato i giovani a incontrarsi per le strade, a riscoprire in compagnia la bellezza della propria città, a favorire l’esplorazione di gruppo.
In generale questo discorso può essere esteso alle partite multiplayer in cui i giocatori si uniscono in party, o anche all’immagine più tradizionalistica di giocare nella stessa stanza tra amici, per sfidarsi o completare insieme un’avventura. D’altronde non credo di essere l’unica ad aver esteso l’uso della mia PlayStation per tornei di Buzz, FIFA, Guitar Hero, Tekken con i propri amici. Anzi, sembrerebbe assurdo pensare che esista qualcuno che abbia giocato per tutta la vita da solo, senza alcun confronto con altri giocatori.
Parentesi personali a parte, gli effetti del videogioco non si esauriscono con la didattica e la socializzazione, benché siano due temi molto importanti. È stato dimostrato infatti che i videogiochi sono una potente arma contro la depressione. Questa ipotesi era stata già avviata tra gli anni Cinquanta e Sessanta dallo psicologo Brian Sutton-Smith, il quale affermava che le persone quando giocano provano maggiore autostima, entusiasmo e curiosità. Insomma tutto ciò che si oppone alla depressione.
Questa teoria è stata ripresa ultimamente da diversi ricercatori, come lo studio nel 2010 pubblicato dall’Università di Rochester, il quale ribadisce quanto ipotizzato da Stutton-Smith però sui videogiochi.
Infine, le alterazioni del cervello a causa del videogioco non sono esclusivamente negative: riprendendo la ricerca canadese citata poc’anzi, i 64 partecipanti non hanno giocato solamente agli FPS, ma anche a Platform in 2D e in 3D come Super Mario 64. Secondo la ricerca il genere platform incrementa positivamente la memoria spaziale dell’ippocampo. Un’altra ricerca pubblicata su Frontiers in Human Neuroscience da Marc Palaus, dimostra che su 116 ricerche scientifiche analizzate, 22 dimostrano i cambiamenti strutturali cui è stato soggetto il cervello di un giocatore, mentre 100 provano i cambiamenti funzionali e comportamentali. Potrebbe far paura una frase del genere, questo perché non si pensa che questi mutamenti possano migliorare i diversi gradi di attenzione, da quella selettiva a quella prolungata.
Il discorso fatto sinora dimostra come il videogioco sia un medium complesso, difficile da definire in maniera univoca, a causa dei differenti generi videoludici che comprende e caratterizzato da contenuti fortemente variegati. Proprio per questi motivi, lo stigmatizzare il videogioco attraverso una retorica scandalistica e dal gusto quasi retrò – e non in senso positivo – non è adatta. Se negli anni Ottanta questa visione poteva essere giustificata, adesso, con quasi 1,2 miliardi di giocatori sparsi in tutto il mondo appare surreale e offensivo ritenere che una percentuale così grossa possa incorrere in pericoli che vanno contro la società stessa.
Anche perché molti casi di cronaca che usano il videogioco come capro espiatorio si basano proprio su una concezione errata, secondo la quale giocare è un passatempo privo di alcuna funzionalità e da rilegare all’infanzia, massimo adolescenza. A quanto pare non è ancora chiaro che l’età media del videogiocatore in Occidente è quella di 30-35 anni. Questo perché i giocatori di oggi non sono solo nuovi adepti, ma sono soprattutto coloro che hanno iniziato a giocare trenta, venti e dieci anni fa. Sono persone che fanno del videogioco un’abitudine. Tuttavia se una semplice abitudine viene trasformata in dipendenza o in malattia, si diffonde un’informazione errata e parziale, fondata su idee comuni.
Il meglio che si possa fare per il bene del videogioco è elevarlo dalla concezione infantile e superficiale e trattarlo in tutto e per tutto come medium, in modo da capire come contrastare gli effetti negativi che può causare, ma anche di diffondere e trarre giovamento quelli positivi.
Le principali fonti per questo articolo sono state:
R. Semprebene e Dario Edoardo Viganò, Videogame. Una piccola introduzione, LUISS University Press, Roma, 2017.
Siti:
ScienceDaily.com
This post was published on 24 Novembre 2017 14:00
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