La notizia di questi giorni sulla chiusura dello studio Visceral Games da parte di Electronic Arts ha avuto un’eco incredibile. I motivi di tale impatto sono due e sono fortemente concatenati. Visceral Games, infatti, è la software house americana che ha dato i natali, ormai quasi dieci fa, a quella perla dell’horror chiamata Dead Space. Un titolo che ha avuto il coraggio di riportare in auge un genere ormai sottovalutato a causa dell’incisività meno netta di due capisaldi come Resident Evil e Silent Hill.
Dead Space fu la risposta occidentale alla necessità degli aficionados dell’horror di provare ancora una volta sensazioni di paura e di tensione, mentre si gioca la notte, con le cuffie alle orecchie e la sola luce del monitor ad illuminare l’ambiente. Il titolo fu giustamente acclamato dalla critica, perché riuscì a raccontare, attraverso un’atmosfera inquietante e una regia spietata, una storia intrigante che vede l’ingegnere Isaac Clark catapultato all’interno della nave spaziale USG Ishimura, in cui terribili creature chiamate Necromorfi hanno eliminato l’equipaggio nel modo più brutale possibile.
Fu così che si arrivò a una trilogia, con i successivi capitoli meno coinvolgenti e più tendenti all’action (specialmente il terzo), portando la serie quasi nel dimenticatoio. Eppure Dead Space 2 riuscì a vendere 4 milioni di copie. Un numero che a primo impatto colpisce, ma che a fronte dei 60 milioni di dollari spesi per lo sviluppo, non è poi un granché, almeno per il publisher Electronic Arts. A questa situazione si aggiunge Battlefield: Hardline, sempre sviluppato da Visceral Games, che ha avuto un’accoglienza tiepida da parte della critica nel 2015.
L’ultima occasione di rivalsa per la software house americana era dunque il titolo dedicato a Star Wars, attesissimo per il 2018, il quale, a differenza di Battlefront II, sarebbe stato improntato più sulla storia e dunque su un’esperienza single-player. Ma appunto, era. Perché, come molti di voi sanno, il progetto Star Wars è passato nelle mani di EA Vancouver mentre Visceral Games ha chiuso i battenti. Tutto questo deriva dalla volontà di Electronic Arts di attualizzare i propri prodotti in base ai gusti del mercato. Ecco quindi che il videogioco non è più semplice intrattenimento o espressione narrativa, ma è cinicamente inteso come servizio.
“Games as a service” è la frase chiave di questo periodo. L’aveva già utilizzata il mese scorso Yosuke Matsuda, presidente di Square Enix, il quale, in occasione del rapporto annuale del 2017, disse che i loro giochi sarebbero stati più incentrati sul multiplayer e sui contenuti online. Secondo Matsuda infatti è finita l’epoca in cui i titoli single-player rappresentano la fetta maggiore del mercato videoludico. Questa visione deriva dalla profonda crescita che ha colpito l’industria nell’ultimo decennio circa: sono aumentati i videogiocatori (attualmente negli Stati Uniti il 65% della popolazione gioca) ed è aumentato il budget (i 60 milioni per Dead Space 2 non sono un’eccezione).
In breve, il videogioco è diventato business. Nel momento in cui si spendono somme del genere per la produzione di un titolo, è normale che fallire nelle vendite vuol dire Game Over. Come arginare il problema? Creando un prodotto che venga arricchito nel tempo con nuovi contenuti a pagamento, come DLC, microtransazioni, eventi speciali e quant’altro, in modo che diventi più remunerativo possibile nella lunga durata. Il videogioco dunque non diventa un modo per evadere attraverso un’esperienza unica e singolare, ma vuole diventare appuntamento fisso nella vita dei giocatori. Ora, un gioco single-player non può rispondere a queste esigenze, quello multiplayer sì, come insegna da anni nonna Blizzard.
E qui passiamo alla seconda questione legata al concetto di “Games as a service” che sta investendo l’intero panorama videoludico: è giunta la fine dei single-player? Diciamo di no. Che il mercato sia in costante evoluzione è un dato di fatto: ogni decennio è stato caratterizzato da un “genere-moda”, che sia punta&clicca, platform, avventure grafiche moderne, open world o sparattutto online.
Queste mode portano a un appiattimento dei contenuti, e questo rappresenta un campanello d’allarme per il mercato che rischia di essere standardizzato. Nell’ottica di massa, il discorso fa paura e fa presagire un quadro privo di inventiva e originalità piegato al gusto di tanti, soprattutto quando grossi nomi come Electronic Arts, Square Enix, Activision, decidono di aderirvi, a discapito di titoli interessanti e originali (vedi appunto Dead Space o Mirror’s Edge per rimanere in EA).
Eppure, il fatto che il pubblico videoludico sia così grande consente anche una certa eterogeneità tra gli utenti, specialmente per coloro che giocano ormai da diversi anni e hanno i loro nomi di fiducia. Prendiamo Bethesda, che continua a creare serie di rilievo per il single-player come Fallout, The Elder Schrolls, Dishonored, Wolfenstein, The Evil Within. Un esempio ancor più importante è la produzione di Sony, che si basa su un pubblico fidelizzato negli anni. Tale pubblico rimane affezionato a PlayStation per le sue esclusive, tipicamente lineari e fondate sulla narrativa (The Last of Us, Uncharted, God of War, The Last Guardian, i titoli di David Cage, ecc.). Non è un caso che proprio Cory Barlog, Director di God of War, abbia detto la sua a favore dei single-player e della linearità dopo quanto successo a Visceral Games.
In questo discorso si potrebbe inserire anche Nintendo. Al momento le principali killer app per l’azienda di Kyoto sono The Legend of Zelda: Breath of the Wild e il prossimo all’uscita Super Mario Odyssey. È anche vero che Nintendo punta molto sul multiplayer, ma nel senso classico del termine, ovvero giocare insieme di persona. Una formula che la stessa natura di Switch rende palese.
Un’altra risorsa per coloro che adorano giocare in solitaria per godere di un’esperienza è la sfera indie e quella dei piccoli team di sviluppo. Lontani dai numeri che riguardano le grandi produzioni, i giovani sviluppatori cercano rappresentazioni alternative, le quali aggirano le dure regole del mercato di massa, per rivolgersi a tipologie di giocatori dotati di sensibilità diversa. E non si parla di giochi rivolti a pochissimi, ma di piccoli gioiellini divenuti comunque noti: Little Nightmares, Unravel, Journey, giusto per fare qualche nome.
La chiave di volta sta proprio qui: l’utenza a cui si riferisce la game industry è ormai vasta, e dunque fortemente eterogenea. Chiaramente vi è una fetta principale, adesso formata dalle nuove generazioni di videogiocatori, a cui cercano di andare incontro alcuni dei principali publisher. Ma non dimentichiamoci che il resto è composto da giocatori di vecchia data, nostalgici di certe meccaniche, o smaniosi di avere tra le mani qualcosa di ancora mai visto prima. E gli sviluppatori di oggi – molti dei quali sono nati prima di tutto come giocatori e appassionati – sono consci che è impossibile ridurre totalmente il videogioco a un mero prodotto da vendere che segue un’unica scia.
Basta soffermarsi sulle ultime uscite di questo ottobre di fuoco: Assassin’s Creed Origins, Wolfeinstein II, il già citato Super Mario Odyssey, The Evil Within 2, Shadow of Mordor: L’Ombra della Guerra. Questi sono titoli di rilievo che si fondano sul gioco in solitaria, o meglio su un’esperienza videoludica assodata.
Forse è più il concetto di linearità a essere messo in dubbio, ma anche in questo caso basta soffermarsi per capirne meglio le dinamiche: l’open word è un concept ben affermato, grazie anche a un progresso tecnologico senza eguali. Soprattutto, l’open world accresce il potere di “onnipotenza” del giocatore, che grazie a questa struttura aperta e soggetta alla sue scelte, viene catapultato col massimo coinvolgimento all’interno di un determinato ambiente di gioco. Un gioco lineare, cioè basato su una struttura rettilinea, permette invece di concentrarsi su elementi meno ludici, ma più artistici.
Tuttavia, se manca la perfetta armonia tra gameplay e narrazione/direzione artistica, il titolo non funziona o crea visioni discordanti. E questo lo hanno dimostrato l’ormai datato The Order:1886 e il più recente Hellblade: Senua’s Sacrifice: stupendi dal punto di vista della regia e della scelte stilistiche, ma noiosi e macchinosi da giocare. In breve, non godibili per tutti. E dunque non è tanto una critica alla formula della linearità, quanto all’incapacità di creare il giusto mix tra giocabilità e componente narrativa ed artistica.
Pur essendo entrato nel business, il videogioco è inserito tra i media come espressione dei nostri tempi proprio per la maturità acquisita nel raccontare storie. La natura di questo medium è eclettica, e rispecchia i diversi desideri dei videogiocatori. Vi sarà sempre una corrente di massa, ma questo non vuol dire che sarà unica. Al suo fianco vi saranno altri filoni pronti ad accontentare i gusti più particolari ed esigenti.
Chi scrive è una persona davvero affezionata ai titoli incentrati su storia e single-player, e il dibattito che sta scuotendo il mondo videoludico nelle ultime ore le ha dato sconforto. Tuttavia, ancora una volta viene in corso la logica: c’è alternativa perché vi sono ancora dei nomi su cui fare affidamento. E fin quando c’è diversità e opportunità di scelta, noi videogiocatori possiamo dormire sonni tranquilli.