The Last of Us è un gioco che non ha bisogno di presentazioni, così come non le necessita la serie televisiva targata HBO: dall’annuncio che uno dei videogiochi più amati di PlayStation dell’ultimo decennio sarebbe stato trasposto al piccolo schermo, inutile dire quanto brusio si sia venuto a creare, a maggior ragione in coda ai costanti aggiornamenti in merito. Un vociare che ha lasciato spazio a diverse perplessità, dalla scelta del cast (compreso il cambio di etnia di un paio di personaggi), all’eliminazione delle spore fino a un più generale dubbio sul fatto che a un videogioco simile – fortemente cinematografico – servisse sul serio una trasposizione.
Eliminando dall’insieme le critiche offensive, che non devono mai trovare spazio in una discussione, sono tutte osservazioni che devono essere tenute in considerazione e non si possono semplicemente liquidare con una scrollata di spalle o un “se lo vuoi 1:1 giocati il videogioco”; soprattutto quando poi il pubblico va in visibilio proprio perché a quest’ultimo vi somiglia. D’altronde le notizie e i trailer che si scelgono di condividere servono, oltre che a pubblicizzare, a dare alla gente una percezione di quello che potrebbe essere il prodotto finale. Nel caso specifico, la mia sensazione è sempre stata quella di una serie che avrebbe provato a imitare l’originale apportando però dei cambiamenti non sempre necessari e, di fatto, così è stato: The Last of Us è una serie valida ma imperfetta, che sembra partire a passo di marcia, sicura di sé, per poi perdersi dopo il terzo episodio e non sapere bene cosa vuole fare – se parlare solo ai videogiocatori, a un pubblico di massa, oppure a entrambi.
Una serie valida ma imperfetta
Questo significa che The Last of Us è da buttare? Assolutamente no. Salvo qualche criticità come l’eccessivo “tell don’t show” iniziale per sottolineare allo spettatore che ci sarà una minaccia fungina in futuro, o la parte che precede l’effettivo incipit del gioco con Sarah e Joel, i primi tre episodi fanno molto ben sperare in un adattamento che possa soddisfare i giocatori e al contempo aprirsi anche a chi non conosce il videogioco. Il terzo in particolare rappresenta per me il punto più alto della serie: dimostra come riscrivere e approfondire dei personaggi secondari raccontando un certo modo di vivere l’apocalisse; al contempo, assieme ad altre scene extra videogioco, rende ancora più evidente come un prodotto parallelo a esso sarebbe stato preferibile e più accattivante. Più che alle vicende di Ellie e Joel, durante la visione mi sono sentita molto più coinvolta da tutto quello che nel videogioco non era stato raccontato.
Mi si potrebbe contestare che il motivo risiede nel conoscere a menadito le vicende ma è vero solo in parte: non è il fatto di conoscerle, quanto di averle già viste rappresentate con uno stampo cinematografico. Sarebbe come vedere un film e poi, lo stesso, rifatto a serie televisiva. Conosco le inquadrature, il taglio, l’espressività, tutto. Non aggiunge niente, non arricchisce in alcun modo una storia, anzi, mostra il fianco a continui paragoni tra le due parti – cosa che spesso è accaduta. Mi sono trovata più volte a storcere il naso su alcuni dettagli che, nel loro essere stati alterati, funzionavano meno e a volte creavano un vero e proprio conflitto.
L’esempio migliore è il quinto episodio: laddove il terzo rappresenta, come ho scritto, il pinnacolo della serie, questo nel suo complesso è il più basso. Non posso entrare nel dettaglio ma va ad allungare l’incontro tra Joel, Ellie, Henry e Sam, costruendo attorno ai due fratelli un racconto che avrebbe potuto anche funzionare, se non avesse voluto creare un doppiopesismo tra il personaggio di Henry, con le sue azioni, e quello dell’antagonista di turno, cercando di dare al primo un’aria più tragica ed eroica poiché mosso dal voler proteggere Sam. Per non parlare del finale, che banalizza ancora di più il nemico e sfrutta un pessimo deus ex machina per risolvere una situazione dove gli sceneggiatori si sono incastrati.
Il mondo di The Last of Us è interessante proprio perché abbatte le barriere tra giusto e sbagliato, rendendo impossibile definire una linea netta tra chi è probo e chi no (tranne, forse, nel caso di David): più volte invece, e in particolare con Henry, ho avuto la sensazione che pur facendo compiere ai personaggi azioni deprecabili – secondo i nostri standard – la serie non affondasse appieno come il videogioco. A un certo punto, dal quarto episodio in avanti, la sensazione è stata quella di trovarsi davanti una riproposizione dei filmati di gioco, allungati qua e là, senza un vero e proprio collante; come la serie non sapesse di preciso quale direzione di fondo.
C’è una certa “morbidezza” di fondo, anche nel personaggio di Joel, che non riesce a restituire appieno quel personaggio disilluso, rude e spietato che conosciamo. In parte è Pascal in sé, che sia come aspetto sia nei toni non raggiunge la durezza del Joel originale, in parte è la sceneggiatura che va a creare delle interazioni non sempre efficaci. La stessa Ellie mi è sembrato calcasse troppo su esclamazioni colorite e atteggiamento insolente, adottandolo come approccio in qualunque situazione; una sorta di scudo che la priva di quegli istinti prettamente umani cui cede nel videogioco. La scena in cui David le offre da mangiare, a mio avviso, è piuttosto emblematica in tal senso e vedrete da voi il perché. Come dicevo, spesso sono i dettagli e le azioni più piccole, nel loro insieme, a definire un personaggio o un evento.
Non sono poche, inoltre, le volte in cui scene iconiche del videogioco sono state alterate, privandole del loro impatto emotivo e della loro importanza nella costruzione delle relazioni tra i personaggi. Al solito, esempi pratici renderebbero meglio l’idea di cosa intendo, ma ovviamente non ne farò: se posso passare sopra senza problemi ad alcune modifiche minori, quelli che ritengo momenti fondamentali nella narrazione devono essere riproposti in modo identico. Non basta dire “ma il senso è lo stesso” perché, non mi stancherò mai di scriverlo, il modo in cui viene rappresentato qualcosa racconta molto dello stesso, che sia un personaggio o una scena. Lo disseziona, offre a noi spettatori un pezzo di puzzle che andremo a incastrare per avere l’immagine completa. Invece, ecco tornare quel “ci metto del mio” di cui molto poco si sente il bisogno.
In questa imperfezione rientra, naturalmente, anche la questione cordyceps: troncato nel suo veicolo d’infezione, le spore, in virtù di non meglio comprensibili tralicci che fungono da sistema di comunicazione ma anche di infezione stessa – discorso molto discutibile per cui servirebbe un articolo a parte – viene sfruttato all’inizio e poi dimenticato. Sebbene, come in The Walking Dead, l’infezione sia una scusa per analizzare l’essere umano e il suo comportamento in caso di pandemia, il cordyceps ha comunque più volte un ruolo nella narrazione. Eliminarne il principale veicolo d’infezione va a minimizzare la gravità della situazione, poiché tutte le potenziali scene in luoghi chiusi e soffocati dalle spore non esistono, e di conseguenza a renderlo piuttosto marginale nelle vicende.
Si vede una progressiva diminuzione degli infetti, che raggiungono il loro picco nel quinto episodio, fino a eliminarli del tutto dall’equazione se non per rarissime comparse nei flashback. Ci sono poi diverse incongruenze dovute, appunto, a un differente veicolo d’infezione ma non serve entrare nel dettaglio. Quanto emerge è che il cordyceps viene molto depotenziato rispetto al videogioco, quando invece avrebbe potuto essere sfruttato per dare vita a diverse situazioni interessanti. Laddove nel videogioco, in un modo o nell’altro, la sua presenza (la sua minaccia) accompagna sempre il giocatore, qui si arriva quasi a dimenticarsene.
Messa in scena ed estetica
Per quanto riguarda la resa complessiva, in termini di performance attoriali c’è poco da dire: gli attori sono tutti talentuosi, dai personaggi minori ai principali, ma trovo che Pedro Pascal e Bella Ramsey non colgano nel senso non a causa loro, bensì di una sceneggiatura a volte non convincente. Soprattutto, ma non solo, nelle scene iconiche cui ho accennato qualche paragrafo più su. Gli stessi toni, in ogni caso, l’intensità, confrontate con il videogioco non raggiungono la stessa forza emotiva. Manca quella durezza di fondo che si percepisce molto bene sia in Ellie sia, in particolare, in Joel. I personaggi che ho preferito di più sono stati Bill e Frank, protagonisti di quel terzo episodio che ho detto essere il migliore della serie.
Dal punto di vista estetico, mi espongo poco per un semplice motivo: la maggior parte degli episodi era ancora “work in progress” dal punto di vista della post produzione, con diverse alternanze di scene editate correttamente e altre ancora da lavorare – che peraltro creavano spesso stacchi un po’ stranianti. I primi due episodi però, quelli completi in tutto e per tutto, risultano assolutamente godibili in termini di fotografia e inquadrature, che alcune volte vanno furbescamente a riproporre quelle del videogioco.
Valorizzati dalle sempre bellissime musiche di Gustavo Santaolalla, alcuni episodi fanno ben sfoggio dell’alto budget di cui gode la serie: gli infetti, che siano clicker o meno, fanno la loro sporca figura al punto che ne avrei voluti ancora; gli scorci desolati in cui Ellie e Joel si muovono, soli (o apparentemente tali) in un mondo che non ha più nulla da offrire colpiscono nella loro miseria. La cura che si nota negli interni è altrettanto meritevole di lode. Insomma, dal punto di vista visivo The Last of Us è una serie che promette bene: scrivo promette perché, appunto, ho avuto accesso a un prodotto ancora in lavorazione e mi è impossibile giudicarlo nel complesso, né voglio basarmi solo sulla fiducia.
L’importanza di un adattamento
Alla parola trasposizione, che non in tutti i dizionari si trova legata all’ambito cinematografico/televisivo, preferisco “adattamento” perché tiene conto di una eventuale rielaborazione dell’intreccio che si vuole raccontare. The Last of Us è, di fatto, un adattamento del videogioco omonimo: da un media dove la fruizione da parte dell’utente è attiva, si passa a uno in cui si è totalmente passivi nei confronti di quanto accade su schermo. Un’operazione tutt’altro che semplice e che, soprattutto, permette di capire quanto persino in un videogioco cinematografico come The Last of Us le fasi di gameplay siano fondamentali nel loro ruolo di collante tra i diversi filmati.
Diventa in particolar modo evidente quando ci si rende conto che la serie televisiva non è riuscita a reinventarsi in tal senso: non è, cioè, stata in grado di rielaborare le fasi di gameplay affinché diventassero qualcosa di diverso, parte della fruizione passiva di cui scrivevo poco sopra. Ha preferito soluzioni spesso di comodo, più banali e penalizzanti, a mio avviso, nello svolgimento degli eventi; in altri casi è riuscita a trovare qualche approccio più valido, che comunque ha dovuto appoggiarsi molto all’introspezione e al dialogo, sacrificando scene d’azione che invece avrebbero potuto incastrarsi meglio.
Questo per dire che non basta estrapolare i filmati da The Last of Us perché la sua storia abbia un senso: a livello generale sì, forse possiamo coglierne le dinamiche, ma la narrazione nel suo complesso risulterà monca perché – al contrario di quanto si legge in giro – le fasi di gameplay sono vitali nel loro ruolo. Attenzione, non è una discussione in merito alla validità ludica del gameplay, sempre aperta al dibattito, ma alla sua innegabile utilità per collegare fra loro le parti cinematografiche. Da un certo punto in avanti, per la precisione dal terzo (bellissimo) episodio, la sensazione è esattamente questa: ossia che, salvo qualche aggiunta qui e lì, si sia voluto riproporre in modo pedissequo le scene del videogioco scartando il collante del gameplay. Una riproposizione, peraltro, con modifiche raramente necessarie.
Adattare è tutt’altro che semplice, a maggior ragione quando il materiale originale è già di per sé orientato a un approccio cinematografico. Motivo per cui, a mio avviso, non era necessaria una serie che riproponesse la storia di Ellie e Joel quanto, piuttosto, una che raccontasse altri fatti all’interno dello stesso universo narrativo. A fronte del gioco su PS3, della remastered su PS4 e del remake su PS5, questa storia si è inevitabilmente scavata una nicchia dentro ciascuno di noi: personaggi e situazioni sono scolpite nei videogiocatori, per questo è difficile mandare giù una serie di bocconi amari uno dopo l’altro pensando che “in fondo sono due prodotti diversi”. Lo è, lo diventa anzi, quando si sceglie di raccontare le stesse vicende.
Che il passaggio da un media all’altro richieda dei compromessi è naturale, che questi si trasformino in una scusa per “metterci del proprio” no perché, a costo di sembrare fin troppo intransigente, se qualcosa è stato pensato in un modo, tale deve restare il più possibile. Non tutto, in una narrazione, passa per i macro eventi; ci sono dettagli che raccontano di qualcuno, o qualcosa, molto più di quanto possano fare intere scene e qui ho visto The Last of Us inciampare spesso, andando a modificare piccole cose che invece, come ho scritto diverse volte, raccontavano parecchio dell’evento o della persona in questione.
Conclusione
The Last of Us è il miglior adattamento avuto finora di un videogioco? Non proprio. Sebbene certi meriti glieli si debba riconoscere, in particolare nella resa visiva di ambientazioni, scorci e persino i bistrattati infetti, dal punto di vista narrativo zoppica dopo i primi tre episodi, lasciando la sensazione di non avere una direzione ben chiara nel suo tentativo di accontentare tutti senza scontentare nessuno. La bravura degli attori è a volte messa in ombra da una sceneggiatura priva di mordente, che va a modificare alcuni aspetti fondamentali depotenziando così l’emotività originale, ed è un peccato se si pensa all’ottimo lavoro svolto con personaggi come Bill e Frank. Definirlo il miglior prodotto derivato da un videogioco è pericoloso, perché qualunque trascorso (dai film più vecchi alle serie più recenti) è mediocre a essere generosi e, dunque, non ci vuole molto e superarlo. Senza subbio è una serie valida ma avrebbe potuto, e dovuto, essere molto di più.