Non di sole major vive l’industria videoludica, ma anche di tante piccole scintille: minuscoli sviluppatori indipendenti guidati da menti creative, o addirittura singoli geniali programmatori che, un po’ per caso un po’ per desiderio, contribuiscono allo sviluppo del medium con le loro brillanti intuizioni.
Ai suoi albori, i primi passi del gaming sono stati percorsi proprio da sparuti pionieri che si sono scoperti game designer quando il concetto nemmeno esisteva.
Molti di questi talenti si sono formati nelle aule di informatica delle università americane, ed è proprio di alcuni di loro che parliamo oggi. Nomi come John Daleske oReginald Rutherford non dicono nulla al 99% dei videogiocatori odierni, eppure si tratta di nomi di capitale importanza per la nascita di generi estremamente popolari per il medium: in quanti sanno che i videogiochi roguelike, RPG o addirittura sparatutto online sono nati addirittura negli anni Settanta?
Se vi fa strano immaginare un battle arena multiplayer vecchio di 50 anni, e se vi fa ancora più strano il non averne mai sentito parlare, il motivo è da ricercarsi nella natura di questi oscuri esperimenti: non si trattava di giochi regolarmente pubblicati e distribuiti secondo la moderna logica industriale.
Titoli fondamentali come Empire (1973), dnd (1975) e Avatar (1979) furono programmati e dunque resi disponibili su PLATO (Programmed Logic for Automatic Teaching Operations), il primo sistema informatico concepito per l’istruzione Computer-based, sviluppato all’interno dell’Università dell’Illinois a partire dagli anni ’60.
Un segmento di storia del videogioco poco nota al grande pubblico, che merita di essere raccontato.
C’era una volta in Illinois
L’insegnamento assistito tramite macchine è una pratica radicata nella cultura educativa americana da oltre mezzo secolo. Uno dei primi esempi in quest’ambito è la teaching machine realizzata nel 1954 dal famoso psicologo comportamentista Burrhus Skinner.
Cosa ha fatto Skinner? Ha concepito un dispositivo in grado di risolvere due problemi fondamentali dell’insegnamento tradizionale, improntato su lezioni frontali impartite da insegnanti umani. I problemi in questione sono la diversa rapidità di apprendimento tra gli studenti e l’assenza di feedback istantaneo: nel caso delle verifiche scritte, infatti, va da sé che ogni studente impiega un tempo diverso per completare il proprio test, con la conseguenza che chi finisce prima dello scadere del tempo è obbligato ad attendere comunque lo scadere del tempo, il che lo pone in una condizione di noia e frustrazione. Gli studenti più lenti, d’altro canto, non possono che provare maggiore ansia nel vedere compagni più rapidi di loro consegnare il proprio test anzitempo. Le verifiche scritte comportano poi un tempo di correzione, a volte di alcuni giorni, che priva gli studenti di una valutazione immediata.
In questo modo il processo di apprendimento è ostacolato dal fatto che all’atto della riconsegna del test valutato, spesso non ci si ricorda più il contenuto dello stesso, e diventa più difficile imparare da propri errori; anche la gratificazione per una risposta corretta è di conseguenza minore.
La teaching machine di Skinner propone invece una serie di problemi che lo studente prova a risolvere ottenendo un feedback immediato: la macchina passa al problema successivo solo al completamento del precedente. In questo modo il feedback è immediato e il rinforzo positivo così ottenuto facilita allo studente il completamento di esercizi dalla complessità crescente.
Negli anni successivi la comunità scientifica si interroga su come poter sviluppare il concetto di educazione assistita dalle macchine: è evidente che i dispositivi meccanici hanno molti limiti, in primis il fatto di non poter spiegare allo studente perché una risposta sia sbagliata o meno. Le macchine meccaniche possono valutare, ma non sono certo in grado di insegnare qualcosa.
Ecco perché negli anni successivi i maggiori sforzi sono profusi in ambito informatico, nel tentativo di concepire e sviluppare, oltre all’hardware, dei software educativi. Il governo americano non risparmia lo stanziamento di fondi in quest’ambito di ricerca, anche perché, alla luce degli exploit russi in ambito di missilistica e conquista dello spazio (Sputnik 1 viene lanciato nel 1957) gli Stati Uniti temono di perdere il primato in termini di progresso scientifico-tecnologico.
I dispositivi più adatti a questo scopo sono senz’altro i grandi computer universitari: in particolare l’università dell’Illinois dispone fin dal 1952 di ILLIAC (Illinois Automatic Computer), mainframe utilizzato in ambito di ricerca dai reparti di fisica ed ingegneria dell’istituto. Daniel Alpert, del dipartimento di fisica, è particolarmente affascinato dall’idea di utilizzare la potenza di calcolo della macchina in ambito di educazione assistita. Inizialmente istituisce un comitato ad hoc per indagare la questione con vari colleghi, ma constata ben presto come sia impossibile conciliare le idee – e le ambizioni – di tutti:
Ciascuno era dell’avviso che, se [il dispositivo ] avesse dovuto essere dedicato all’apprendimento della matematica, avrebbe dovuto insegnare il suo ambito di matematica; se avesse dovuto incentrarsi sulla scienza, sarebbe dovuto essere dedicato alla sua branca scientifica; se l’ambito fosse dovuto essere ingegneristico, allora sarebbero stati gli ingegneri a dover supervisionare il tutto. Poi c’era un tizio del reparto educativo che riteneva dovesse essere lui la figura chiave, e che se il progetto fosse andato in porto sarebbe dovuto esserne messo lui a capo. Insomma non passò molto tempo prima di rendermi conto che con un manipolo di prime donne iper-specializzate […] non sarei mai approdato a nulla. Daniel Alpert citato in B. Dear, The Friendly Orange Grow, Random House USA Inc 2018, p.38.
Finalmente Alpert trova la soluzione ai suoi problemi nella persona dell’ingegnere Donald Bitzer, all’epoca impiegato presso il Control Systems Laboratory dell’università, che accetta la sfida di concepire e sviluppare un computer in grado di insegnare.
Ma insegnare cosa? L’intuizione arriva ad Alpert come un classico lampo di genio: “Era ovvio che ciò che serviva era una persona interessata ad insegnare come si usa un computer. Perché se hai il talento per concepirlo, questo è l’argomento più naturale, no? Voglio dire, era lampante. Ma non venne mai in mente a nessun membro del comitato” (ibid).
Il risultato è appunto PLATO, la cui prima incarnazione, PLATO I, vede la luce nel 1960.
Welcome to the Machine
PLATO è concepito come un sistema che sfrutta la potenza di calcolo del mainframe per servire più studenti contemporaneamente, in base al classico principio di time-sharing (l’unità di elaborazione esegue i calcoli richiesti dagli input provenienti dagli studenti durante intervalli di tempo differenti). Ovviamente questo implica che ciascuno studente deve poter immettere input e, soprattutto, ricevere output differenti dallo stesso mainframe. Per questo motivo PLATO è concepito, a livello hardware, come una serie di terminali periferici costituiti da monitor e tastiere, collegati a ILLIAC. In questo modo più utenti contemporaneamente possono utilizzare lo stesso calcolatore, ma ognuno con uno scopo differente. Ovviamente il primo prototipo realizzato è costituito da un unico terminale, collegato al computer e ad altri due dispositivi secondo il diagramma riportato qui sotto.
Quando le azioni di un utente sulla tastiera richiamano una determinata slide (il cui contenuto può essere una lezione, un problema, un grafico, in breve qualsiasi documento che sia stato preparato in precedenza da un insegnante), il computer la recupera dal selettore (ma nei primissimi tempi il lavoro di selezione era svolto manualmente da un addetto!) e la carica nella “lavagna elettronica”, ovvero un dispositivo in grado di digitalizzare e proiettare un’immagine allo studente tramite il display.
Nel concreto tale lavagna elettronica è costituita dal QK685 recording storage tube prodotto dalla ditta Raytheon. Tali tubi a raggi catodici hanno tuttavia alcuni limiti tecnologici, ad esempio tendono ad usurarsi dopo il migliaio di ore di utilizzo, ed inoltre non sono in grado di mantenere integra a lungo l’immagine proiettata: se uno studente rimane inattivo troppo a lungo, l’immagine sul display comincia a sbiadire, fino a scomparire!
Per questa ragione, fintanto che il sistema PLATO fece uso dei tubi di memoria – e lo fece a lungo, per la sua prima dozzina d’anni – la tastiera includeva un caratteristico tasto “REFRESH” che, una volta premuto, comandava al computer di restituire l’ultima immagine immagazzinata nel tubo di memoria, che riappariva immediatamente ben definita a schermo. Fino a che non iniziava a sbiadire nuovamente dopo qualche minuto… B. Dear, The Friendly Orange Grow, Random House USA Inc 2018, p.67
Per quanto riguarda il display, si tratta di un semplice monitor televisivo riadattato per l’occasione, mentre la tastiera era composta di soli sedici tasti per scrivere più alcuni tasti di controllo come “HELP”, “CONTINUE” eccetera. Insomma PLATO I è sicuramente un dispositivo fisicamente grezzo ma dal punto di vista concettuale è brillante e, sopratutto, funziona.
Bitzer crea le sue slide di lezione sul funzionamento di ILLIAC, mentre altri professori elaborano alcuni corsi di prova, tra cui una teoria dei numeri e una grammatica tedesca.
Una delle intuizioni più felici è quella di programmare PLATO per raccogliere dati sugli studenti: il tempo speso su ogni singola slide, l’ordine ed il tipo di comandi immessi e così via. La raccolta dei dati consente ai creatori di PLATO non solo di misurare l’efficacia della macchina in termini di mero funzionamento, ma soprattutto di capire come gli studenti la utilizzino, quali eventuali problemi riscontrino e così via; chiaramente il vantaggio più grande di questa raccolta dati è la possibilità per i suoi creatori di andare ad intervenire dal punto di vista hardware e software per risolvere gli eventuali problemi nati.
All’atto pratico c’è un rapporto di interdipendenza tra macchina e studente: la macchina impara ad essere migliore attraverso gli studenti e gli studenti apprendono attraverso la macchina.
È questo mutuo scambio a consentire un costante avanzamento del sistema PLATO, che viene continuamente aggiornato, rifinito e migliorato. Inoltre il sistema inizia ad espandersi oltre i confini dell’università dell’Illinois, per essere via via configurato nei mainframe di numerose università americane e mondiali nel corso di tutti gli anni ’60. Nel 1972 vede la luce PLATO IV, che è un vero miracolo tecnologico, ed è qui che entrano in scena i nostri geniali game designer in erba:
[PLATO IV] offre grafica vettoriale, interfaccia touch-screen ed una rete simile ad Internet, che connette migliaia di terminali sparsi in tutto il globo. Gli studenti si rendono presto conto che tutto questo può essere sfruttato anche per programmare giochi, e titoli come Empire (1973) e Spasim (1974) iniziano così a comparire. Empire è particolarmente impressionante: si tratta di un titolo in cui 30 giocatori combattono in un’arena spaziale top-down, sparando ognuno contro le navi spaziali avversarie e contenendosi il dominio della galassia – tutto questo nel 1973! Felipe Pepe, The CRPG Book – Expanded Edition, p. 32. Il pdf è liberamente scaricabile a questo indirizzo
Un computer per videogiocarli tutti
Il contributo di PLATO IV alla videoludica è enorme: generi oggi estremamente popolari hanno avuto i loro prodromi su questa piattaforma.
Nel resto dell’articolo vi propongo alcuni casi esemplari.
Roguelike / Dungeon Crawler
Indagare la storia di questi pionieri implica anche imbattersi, un po’ come accade nella storia del cinema, in titoli di videogiochi ormai perduti: è il caso di m119h (1974), citato spesso come il primo dungeon crawler mai realizzato, che purtroppo è perso per sempre in quanto fu eliminato dagli amministratori del sistema.
Purtroppo gli istituti universitari non vedevano di buon occhio i primi titoli realizzati sui sistemi PLATO, motivo per cui è storia nota che gli amministratori di sistema si muovessero in un’ottica di search and destroy per distruggere opere create punk, create senza autorizzazione da un manipolo di studenti appassionati di programmazione; questa pratica, purtroppo, sembra essere durata fino a metà anni settanta ed è il motivo dietro l’impossibilità di recuperare moltissimi dei titoli sviluppati in questo periodo.
Molti altri, fortunatamente, l’hanno scampata grazie ad alcuni accorgimenti adottati dai loro creatori, che nominavano i file in modo ambiguo e li nascondevano in remote cartelle al riparo da occhi indiscreti. Fino a poco tempo fa si riteneva che non fossero sopravvissute immagini di m119h, né testimonianze affidabili circa le sue caratteristiche tecniche e di gameplay, eccetto un unica fonte documentata sulle pagine del blog The CRPG Addict:
Risale al 2011 una testimonianza da parte di un amministratore di Cyber1, che aveva giocato a m199h all’epoca, secondo cui il gioco era almeno parzialmente basato su un titolo chiamato Monster Maze scritto da un Terry O’Brian su un CDC 6600. Inoltre Gillies [Don Gillies, studente all’università dell’Illinois negli anni ’70 e creatore di Sword and Sorcery; ne parleremo dopo] disse che The Game of Dungeons e m199h “sembravano quasi esattamente gli stessi titoli al di fuori dello splash screen; se ti trovavi all’interno del dungeon, difficilmente potevi riconoscere a quale dei due giochi stessi giocando”. Ciò suggerisce che m199h sarebbe stato un gioco con prospettiva top-down in cui il personaggio esplorava una mappa simile a un labirinto, trovava oggetti e tesori e combatteva mostri. Aveva una buona grafica, secondo la maggior parte dei ricordi, ma era più piccolo di The Dungeon o The Game of Dungeons. Non aveva meccaniche multi-player. BRIEF: Everything We Know About 1970s Mainframe RPGs We Can No Longer Play – 30 giugno 2021
Proprio sullo stesso blog sono emersi a ottobre 2023 nuovi documenti, che potete vedere qui, relativi al suo funzionamento, alle mappe di gioco e ad alcuni mostri presenti nel titolo. Stando a queste ultime informazioni, inoltre, la datazione del gioco andrebbe posticipata al 1976, il che lo renderebbe di fatto non il capostipite del genere, bensì un emulo del prossimo titolo di cui parleremo.
Archiviato il caso m119h, il più antico dungeon crawler giunto fino a noi è The Dungeon (1975), creato dallo studente Reginald Rutherford che lo occultò all’occhio censorio degli admins denominandolo pedit5. Alcune sue caratteristiche, come il permadeath, lo fanno entrare di buon diritto tra gli antenati del genere roguelike, caratteristica impressionante se teniamo conto del fatto che anticipa Rogue di ben cinque anni!
Come la maggior parte dei dungeon crawler sviluppati per PLATO, The Dungeon adotta un setting fantasy sulla scia del gioco di ruolo Dungeons & Dragons, anche se non si occupa minimamente di sviluppare una narrativa vera e propria. La creazione del personaggio tuttavia attinge a piene mani da D&D, poiché il giocatore è chiamato a effettuare tiri di dado virtuali per stabilire i valori delle statistiche iniziali del personaggio, declinate in quattro attributi: Forza, Destrezza, Costituzione e Intelligenza. Dal famoso gioco di ruolo sono ripresi alcuni dei 16 incantesimi disponibili, che contemplano magie offensive, curative e di alterazione di status. Per il resto, il gameplay è immediato e di semplice assimilazione:
Visivamente il gioco assomiglia ad un roguelike, sebbene anticipi Rogue (1980). Il giocatore esplora un dungeon labirintico con visuale top-down, cercando tesori e combattendo mostri – se si muore, il personaggio viene cancellato. L’obiettivo è accumulare 20.000 XP e tornare all’entrata del dungeon. In caso di successo il proprio nome viene inserito nella Hall of Fame. La conformazione della mappa è fissa e prevede un unico piano, ma è piuttosto grande e sono presenti passaggi segreti. L’esplorazione è movimentata dalla presenza di incontri casuali, all’apparizione dei quali il gioco propone l’alternativa di combattere, lanciare un incantesimo o darsi alla fuga. Felipe Pepe, The CRPG Book – Expanded Edition, p. 33.
RPG
Diretta filiazione dei giochi summenzionati è The Game of Dungeons (1975), passato alla storia semplicemente come dnd (questo era il nome del file). Creato da Ray Wood e Gary Whisenhunt, costituisce un esempio di proto-RPG che espande il concetto di dungeon crawler dei titoli precedenti poiché introduce alcune meccaniche classiche dei futuri videogiochi di ruolo, come la presenza di negozi dove acquistare equipaggiamento utile all’avventura e la boss fight di fine quadro:
dnd è stato il primo gioco ad implementare negozi dove i giocatori potevano comprare oggetti, armi, armature e pozioni. Il giocatore avrebbe incontrato mostri più forti nel corso della progressione, e avrebbe anche trovato tesori migliori. Questo tentativo di far fare le veci del dungeon master ad un algoritmo del computer fu l’inizio delle IA adattive per i giochi. Il concetto di teletrasporto fu inoltre introdotto nei videogiochi da dnd. Per la prima volta, diversi tipi di mostri erano vulnerabili a diversi tipi di attacchi. Furono anche introdotti boss e mini-boss, cioè nemici di livello superiore alla media posti a guardia di importanti tesori e di ingressi a differenti piani del dungeon, e naturalmente la sfera stessa [obiettivo finale da raggiungere] era custodita da un Drago, che a sua volta era circondato da minions. Il giocatore poi non era intrappolato nel dungeon: uscirne era un’occasione per curarsi, comprare provviste e salvare il gioco. Zerothis per Universal Videogame List – 6 gennaio 2007
Da questo breve elenco di features è evidente che The Game of Dungeons rappresenti il capostipite dei CRPG: c’è tutto, dalla personalizzazione del personaggio all’interazione con gli NPCs, dal combattimento non in tempo reale (non si può ancora propriamente parlare di turni dato che i combattimenti si risolvono istantaneamente) all’esplorazione libera di ambienti colmi di segreti (seppur ancora limitati al ristretto ambito del dungeon). Certamente continua a condividere caratteristiche proprie dei roguelike quali il permadeath e lo spawn casuale di oggetti. The Game of Dungeons si differenzia però da questo genere poiché include uno scopo ultimo: recuperare la sfera magica in fondo al dungeon (difesa appunto dal malefico drago) e ritornare indenni in superficie.
Questa novità non deve apparire di poco conto: l’introduzione di uno scopo preciso assegnato al giocatore è alla base di ciò che negli anni a venire diventerà un caposaldo del genere, ovvero l’esistenza di una componente narrativa. Quelli che appaiono ancora elementi poco coesi (i mostri, la caverna, l’eroe, l’artefatto prezioso, il villaggio) diventeranno ben presto ingredienti per i primi, semplici intrecci narrativi che fungeranno da testa di ponte per la costruzione delle grandi epopee RPG di cui è costellata la storia del videogioco.
In una preziosa testimonianza video (non embeddabile poiché sottoposta a limiti di età: potete vederla qui) Ray Wood e Gary Whisenhunt ripercorrono le circostante che portarono allo sviluppo del gioco, figlio di un dichiarato amore sia per il D&D cartaceo che per il precedente pedit5, cancellato dagli amministratori del mainframe universitario (ma fortunatamente salvato anche esternamente, ed è il motivo per cui è sopravvissuto e giocabile ancora oggi), sorte non toccata a dnd per il semplice fatto che Whisenhunt era nel tempo diventato lui stesso amministratore del sistema!
Il contenuto dell’intervista è particolarmente interessante per il fatto che esplicita la totale amatorialità di queste operazioni, nate dalla scintilla creativa di studenti curiosi che si divertivano a sperimentare con una tecnologia che stavano appena imparando ad utilizzare.
[PLATO] era nato teoricamente come dispositivo orientato all’educazione, di conseguenza era naturalmente predisposto ad essere programmato. Ciò ha permesso alle persone e agli studenti di poterne cavare fuori dei giochi! Perciò ha fatto davvero un ottimo lavoro dal punto di vista dell’insegnamento! Ray Wood intervistato da RPG Fanatic
Ho davvero imparato a programmare grazie a PLATO, non avevo mai interagito con un computer prima di allora. Non avevo mai seguito una lezione sull’argomento o roba simile, ho semplicemente imparato ad usarlo, e ciò era esattamente lo scopo per cui era stato costruito: insegnare i fondamenti della programmazione. Era molto interessante. Gary Whisenhunt intervistato da RPG Fanatic
The Game of Dungeons continua ad essere ampliato negli anni successivi al suo lancio, con l’aggiunta di nuovi piani del dungeon, oggetti, incantesimi e così via, pur rimanendo circoscritto ad un’esperienza per giocatore singolo. Alcuni RPG sviluppati negli anni successivi romperanno anche questa barriera. Ne parleremo più avanti.
Adventure
Oggigiorno intendiamo il genere avventura in due declinazioni prettamente distinte: action-adventure e avventure grafiche. Due generi completamente differenti ma che condividono un assunto di base, ovvero l’esplorazione di un ambiente virtuale da parte del giocatore che non ne conosce in partenza tutte le caratteristiche, e a cui solitamente è assegnato uno o più obiettivi specifici, a breve o a lungo termine.
Per quanto riguarda le avventure grafiche, è facile rintracciarne i prodromi nelle avventure testuali, sorta di controparte PC dei libri-game: in esse l’avventura è caratterizzata da bivi narrativi che consentono al giocatore di scegliere di volta in volta la strada da prendere, l’azione da compiere, il personaggio con cui parlare e così via. Tutto questo non viene più veicolato da rappresentazioni grafiche ma da schermate di testo, al massimo accompagnate da immagini statiche.
Generalmente si indica come prima avventura testuale della storia Colossal Cave Adventure (1976), creato da Will Crowther su un computer PDP-10 (anch’esso utilizzato come mainframe da molti istituti universitari), sebbene esista qualche esempio embrionale in anni precedenti (vedi Castle di Peter Langston, datato 1974).
Sul fronte delle avventure testuali PLATO non può vantare titoli memorabili. Il più noto rappresentante (forse l’unico) del genere è Adventure (1979), creato da Phil Seastrand, Dave Schoeller e Mark Ciskey. Non si tratta di un titolo originale, bensì di una sorta di versione leggermente modificata di Zork, altra celebre avventura testuale scritta nel 1977 su mainframe PDP-10 ed in seguito commercializzata su personal computer e console nel corso di tutti gli anni ’80.
Il titolo PLATO ricalca quasi pedissequamente ambienti, oggetti e mostri di Zork, limitandosi a modificare qualche rompicapo e a semplificare la navigazione della mappa (i movimenti concessi sono limitati alle quattro direzioni cardinali più “su” e “giù”, escludendo quindi le diagonali).
Altre due cose da notare:
a.) Il parser non è tarato su due parole. Se vuoi premere il pulsante blu, devi digitare PUSH BLUE BUTTON e non solamente PUSH BLUE. Il gioco tende ad essere più intransigente di Zork in merito ai complementi oggetto indiretti; ricordo che fosse possibile digitale semplicemente ATTACK TROLL in Zork, mentre in Adventure per compiere la stessa azione sei obbligato a specificare l’arma che vuoi utilizzare, anche se ne hai con te una sola: ATTACK TROLL WITH KNIFE o ATTACK TROLL WITH SWORD (funzionano entrambe!)
b.) La schermata di aiuto elenca tutte le stanze e tutti gli oggetti presenti nel gioco. (…) ad un’occhiate veloce sembra proprio un mischione di elementi presi da Zork. J. Dyer per Bluerenga – 4 marzo 2021
Più interessante è indagare l’ambito dell’action-adventure.
Ovviamente nessun gioco sviluppato per PLATO ha caratteristiche tali da poter essere etichettato secondo tale nomenclatura, ma c’è almeno un caso particolarmente interessante che a mio parere può essere considerato un antenato del genere: si tratta di Sword and Sorcery (1978), creato da Don Gillies. Si tratta di un gioco di ambientazione fantasy che si discosta dai precedenti esempi RPG per alcune caratteristiche uniche. In effetti il titolo riadatta in chiave originale il design di un gioco di fantascienza molto popolare all’epoca, Star Trek (1971) di Mike Mayfield, programmato su mainframe SDS Sigma 7 e negli anni successivi adattato per le più svariate macchine, tra cui PLATO.
L’obiettivo del gioco è distruggere le navicelle spaziali nemiche mentre si vola per quadranti stellari a bordo dell’Enterprise. La mappa di gioco suddivide lo spazio in una griglia di 8×8 quadranti, ciascuno suddiviso al proprio interno da altrettanti 8×8 settori. Il giocatore ha il compito di esplorare questa grande mappa alla ricerca delle navi nemiche, stando attento a non urtare le occasionali stelle che può incrociare sul proprio cammino (ben visibili a schermo), che fungono anche da ostacoli qualora si ingaggi un combattimento. Si hanno a disposizione risorse limitate in termini di munizioni e carburante, che possono essere ripristinate solo a certe condizioni (ad esempio facendo rifornimento alla base spaziale).
Nella creazione di Sword and Sorcery, Gillies attinge a piene mani alla struttura del mondo di gioco di Star Trek, di cui riprende la mappa a griglia e la visuale dall’alto (per quanto sia difficile parlare propriamente di “visuale” in riferimento al titolo del ’71). Ne assimila anche le premesse concettuali: al giocatore viene assegnata una missione, dopodiché è lasciato libero di esplorare la mappa di gioco a piacimento (peraltro partendo da un punto casuale), cercando e accumulando risorse, affrontando o evitando i nemici in cui si imbatte e così via.
Che l’impostazione di gioco non sia figlia dei proto-RPG di PLATO bensì di uno pseudo-esplorativo spaziale è evidente da alcune scelte di design, ad esempio riguardanti la meccanica di movimento: invece che limitarsi ad indicare una direzione da percorrere, il giocatore deve anche indicare la velocità di movimento, il che si traduce nella quantità di caselle percorse in un turno.
Ovviamente anche i nemici, la cui posizione all’interno di ciascuna schermata è randomica, compiono i propri movimenti e, poiché una collisione con essi danneggia il personaggio, è necessario calcolare preventivamente le proprie mosse per evitare una morte repentina. Tuttavia, studiando un po’ le meccaniche è possibile riuscire a compiere manovre “acrobatiche” come spiega lo stesso Gillies :
Un turno consiste in: il tuo attacco, il tuo movimento, l’attacco del mostro, il movimento del mostro. Di conseguenza, è possibile colpire con la spada un mostro mentre ci si allontana da lui. Se capita di trovarti in questa circostanza, posizionandoti correttamente con il mostro che ti insegue, puoi colpirlo con la spada e allontanarti senza subire danni. Per questo motivo puoi riuscire ad eccellere nel gioco anche senza ricorrere ai cerchi magici [zone sicure in cui i nemici non possono danneggiare il personaggio]. Commento ad un post su CRPG Adventure – 2 gennaio 2021
A dispetto di queste stranezze di gameplay, alcuni tendono a considerare comunque Sword and Sorcery un esponente del genere RPG:
Swords and Sorcery è un adattamento fantasy di questa idea di base [cioè il design di Star Trek]. Il personaggio riceve incarichi da un re piuttosto che missioni dalla Flotta Stellare; invece di affrontare i Klingon, se la vede con orchi e goblin; invece di phaser e siluri fotonici, combatte con una spada e frecce. Le tattiche associate al posizionamento e al movimento sono altresì tutte presenti, con gli alberi che ricoprono il ruolo delle stelle nell’altro gioco [cioè ostacoli al movimento o al combattimento a distanza].
Ma lo sviluppatore di Swords ha aggiunto alcuni elementi che qualificano il gioco come un RPG in un modo che il suo predecessore fantascientifico non poteva vantare. In primo luogo, il personaggio è persistente: non “vince” dopo aver ucciso 17 nemici, ma piuttosto ottiene una ricompensa al termine di un incarico e poi ne comincia un altro.
Guadagna esperienza, accumula oro, trova oggetti e conserva queste cose tra un incarico e l’altra.E gli incarichi stessi variano, tanto più che spetta al giocatore specificare le dimensioni del mondo di gioco complessivo e quindi (in una certa misura) la difficoltà dell’avventura. The CRPG Addict – 6 febbraio 2019
Personalmente ritengo invece che possa qualificarsi a buon diritto come antenato degli action-adventure.
Pensateci: osservando le sue schermate potete non pensare a The Legend of Zelda?
C’è una netta somiglianza anche considerando gli assunti fondamentali di entrambi i titoli: esplorazione libera di un mondo fantasy a mappa aperta, navigabile tramite scroll di schermate da setacciare alla ricerca di oggetti e potenziamenti, combattendo nemici all’arma bianca o con armi a lunga gittata.
Tra l’altro, a differenza dei titoli presentati nelle sezioni roguelike e RPG, Sword and Sorcery non prevede una creazione del personaggio con assegnazione di punti attributo alle caratteristiche. A conti fatti l’iconografia fantasy mi sembra l’unico elemento in comune con gli altri videogiochi di ruolo citati. Con questo non voglio certo suggerire un’influenza del gioco di Gillies nella genesi del capolavoro di Shigeru Miyamoto (che forse non ha mai nemmeno sentito parlare di questo gioco); tengo solo a sottolineare l’originalità di un titolo caduto nel dimenticatoio ma che all’epoca racchiudeva intuizioni di game design che si sono sviluppate compiutamente solo molti anni dopo.
Shooter / Simulazione / MMO
Sembra fantascientifico che PLATO possa vantare esponenti in tutti e tre i generi che danno il titolo a quest’ultima sezione dell’articolo, eppure non solo è davvero così, ma ci sono titoli che rientrano contemporaneamente in tutte queste categorie!
Tra i primi titoli di simulazione mai fatti figurano quelli di combattimento aereo sviluppati su PLATO. Dogfight, che vede la luce attorno al 1972, consente di ingaggiare duelli aerei multiplayer in un ambiente bidimensionale, mentre Airfight, successivo di un paio d’anni, sviluppa addirittura un ambiente di gioco 3D con visuale in prima persona! Don Gillies si spinge a definire Airfight il precursore del più moderno simulatore di volo, Microsoft Flight Simulator:
Su PLATO era disponibile Airfight, un simulatore di volo 3D in tempo reale con rappresentazioni tridimensionali dell’orizzonte, degli aeroporti e dei nemici (solo come icone). Uno degli autori era Brand Fortner. Questi autori andarono poi a fondare una compagnia che originò Microsoft Flight Simulator. Credo che il 1973 sia l’anno giusto in cui collocare l’uscita di Airfight. Sicuramente precedette Empire. Credo sia molto importante sottolineare come Microsoft Flight Simulator sia derivato da PLATO, dai ragazzi che programmarono Airfight. Non ricordo il nome della compagnia che fondarono, ma ebbe grande successo per qualche anno fino a che Microsoft la acquistò a metà anni ’80. Don Gillies citato in J. Mulligan e B. Patrovsky, Developing Online Games: An Insider’s Guide, p.439
Va però specificato che la ricostruzione di Gillies non è esatta: il creatore del primo Flight Simulator, programmato su Apple II nel 1979, è Bruce Artwick. È vero che la sua compagnia, Sublogic, successivamente sviluppò un altro simulatore per conto di Microsoft, che vide la luce nel 1982 appunto col nome di Microsoft Flight Simulator. Tuttavia Sublogic non fu acquisita da Microsoft (sorte toccata invece alla successiva compagnia fondata da Artwick, BAO Ltd.), né esistono prove del fatto che Artwick abbia contribuito alla creazione di Airfight.
Vero, Artwick fu studente all’università dell’Illinois negli anni in cui Airfight uscì, e non è affatto difficile immaginare che il titolo possa averlo influenzato più o meno direttamente nella volontà di sviluppare un simulatore per piattaforme IBM, tuttavia l’unico autore riconosciuto del gioco rimane fino a prova contraria Brand Fortner, che ha ricordato la sua esperienza di sviluppo in occasione di un simposio per i 50 anni di PLATO (che potete vedere qui sotto).
Peraltro nello stesso simposio è presente anche Artwick, che non menziona di aver preso parte in alcun modo allo sviluppo di Airfight, sostenendo di essersi avvicinato ai simulatori solo dopo il suo periodo di studi universitari.
Al di là della questione dell’attribuzione, sono le innovazioni del gioco a contare; per l’epoca la tridimensionalità nel gaming è davvero una novità di peso:
La grafica wireframe di Airfight poteva essere disorientante per il giocatore nel corso delle operazioni di rullaggio intorno all’aeroporto o mentre si guadagnava quota – situazioni in cui non si vedeva né la linea dell’orizzonte né le nuvole. Tuttavia il semplice fatto che fosse in 3D forniva un enorme “fattore wow”, e senza che esistesse null’altro a cui paragonarlo in termini visivi, la sua rappresentazioni stilizzata e il frame rate quasi statico erano considerati il prezzo da pagare in cambio di un realismo sbalorditivo per l’epoca (e la presenza del pannello radar dell’aereo intensificava questa sensazione). Richard Moss per Ars Technica – 29 ottobre 2016
La natura multi-utente del sistema PLATO, inoltre, rende naturale sviluppare i giochi shooter in ottica multiplayer: per quanto pionieristica, era una conseguenza logica della piattaforma su cui questi titoli erano sviluppati. Non solo Airfight, dunque, bensì moltissimi altri titoli simulativi tra cui Panzer (1975, una simulazione di carri armati) e soprattutto Empire (1973) espandono questo concetto fino a creare le prime comunità di giocatori online.
Non è certamente un esagerazione considerare Empire il primo MMO della storia, dato che fin dalla sua primissima versione è in grado di ospitare sessioni multiplayer di 8 giocatori in contemporanea, ed arrivando nella sua quarta versione a poterne ospitare ben 32!
Il gioco sviluppato da John Daleske e Silas Warner (quest’ultimo creerà Castle Wolfenstein nel 1981) si spinge anche oltre, concependo per la prima volta la suddivisione dei giocatori in fazioni; 4 squadre (in Empire IV, 1976) che devono contendersi il dominio dell’universo in una partita che può arrivare a durare giorni: la mappa di gioco è un quadrato 512×512 kilometri e il gioco finisce solo in caso di conquista totale da parte di una fazione! Non è finita qui perché Empire introduce anche un sistema di messaggistica in-game, sia pubblica che privata, ovvero è possibile comunicare in tempo reale sia con la totalità dei giocatori sia con player specifici.
Una funzione immancabile in qualsiasi MMO moderno.
Queste innovazioni non tardano ad essere applicate all’altro genere che, più di ogni altro, spopolava su PLATO, ovvero l’RPG: ecco allora spuntare Moria (1975), il primo a supportare sessioni multiplayer fino a 10 giocatori, e poi Oubliette (1977), il primo a prevedere la formazione di parties multiplayer e programmare i combattimenti in funzione di essi (vincere da soli un combattimento era quasi impossibile). Queste scelte erano grandi novità, nonostante non fossero implementate in maniera particolarmente geniale.
Ogni party ha un caposquadra che controlla i movimenti dell’intero gruppo; tutti gli altri membri del party non possono far altro che attendere l’ingaggio di un combattimento cui poter prendere parte, ed un volta iniziato premere i comandi corrispondenti. Detta così può sembrare una meccanica un po’ noiosa, ma si trattava di qualcosa di davvero notevole per l’epoca in cui era stata concepita. The CRPG Addict – 7 ottobre 2013
Oubliette è anche il primo RPG a prevedere delle gilde in cui il giocatore può entrare a far parte, un concetto che sarà ripreso e potenziato da Avatar (1979), il MMORPG definitivo:
Il gioco offre 10 razze e 11 classi, ciascuna legata ad una differente gilda cittadina. Come Oubliette, si parte in un castello che si trova in cima ad un enorme dungeon diviso in 15 piani […] all’interno del dungeon c’è una pletora di elementi innovativi, come precipizi, zone d’ombra, spinners [una casella-trottola che fa perdere l’orientamento] e aree anti-magia. I nemici son ancora più letali e in grado di infliggere status negativi come veleno, sonno e paralisi. Felipe Pepe, The CRPG Book – Expanded Edition, p. 35.
Wish you were here… and here you are!
Il gaming viene da lontano e, come abbiamo visto, alcuni fondamenti del videogioco moderno hanno una genesi vecchia di oltre mezzo secolo.
Dobbiamo essere grati ai creatori di PLATO e a tutti i brillanti studenti che hanno deciso di ammazzare il tempo tra una lezione e l’altra utilizzandolo per creare opere che hanno influenzato l’intera industria di cui godiamo oggi.
Chiunque fosse curioso di andare a scoprire altri giochi PLATO oltre a quelli che ho citato, o magari di provarne qualcuno personalmente, non deve far altro che visitare il sito del progetto Cyber1, che emula il sistema PLATO su server proprietari e fornisce tantissima documentazione e tutorial sul suo funzionamento.
Lo consiglio vivamente a chiunque sia curioso di “toccare con mano” questi emozionanti reperti di archeologia del gaming!