Tanti videogiochi (di qualità) non saranno mai un problema

ci sono tanti videogiochi, sono davvero troppi?

Ci sono davvero troppi videogiochi? Lo sto sentendo e leggendo da più parti, un fenomeno che è stato definito da taluni “bulimia videoludica”, cioè abbuffarsi di videogiochi fino a vomitare. La questione ha preso piede negli ultimi mesi con l’incedere autoritario della proposta ludica del Gamepass, ricca, sempre in divenire e relativamente a basso costo.

Ci sono tanti videogiochi, è davvero un’era perfetta per avvicinarsi a questa passione e per approfondirla se ci si è già dentro da un po’. Anche le uscite “normali”, cioè non inerenti a un abbonamento, non sono da meno, basti pensare che negli ultimi due/tre mesi sono stati rilasciati sul mercato Far Cry 6, Marvel’s Guardians of the Galaxy, Forza Horizon 5, GTA Trilogy Remastered e a dicembre ci attende Halo Infinite, più altri titoli meno rinomati, ma comunque degni di attenzione.

Molti prodotti di assoluto valore poi sono stati rinviati al 2022, solo nel mese di febbraio saranno disponibili Elden Ring, Horizon II: Forbidden West, Saints Row e Dying Light 2. Questo, per alcuni, è un vero problema, ci sono troppi videogiochi, poco tempo per giocarli tutti. Ebbene, io invece voglio spezzare una lancia a favore del momento storico attuale dell’industria videoludica: per me tanti videogiochi (di qualità) non saranno mai un problema.

La domanda da porsi è: una società come Microsoft dovrebbe gestire il suo catalogo togliendo, piuttosto che aggiungendo, per permettere a chiunque di recuperare tutto? A me la risposta sembra scontata, è un secco no. Il motivo è presto detto. È il singolo individuo a dover organizzare il proprio tempo, non può delegare all’industria che, in quanto tale, deve produrre e fatturare.

Definire un problema l’abbondanza di scelta mi sembra alquanto azzardato e poco lungimirante per due motivi fondamentali. In primo luogo, se la scelta e le possibilità di fruizione diminuissero sensibilmente non ci sarebbe un ritorno dell’investimento da parte dell’acquirente che ha deciso di comprare una o più console. Se acquisto una piattaforma, lo faccio per poterne usufruire con i tempi e i modi che posso decidere solo io. Se il mio modo di approcciare al videogioco mi porta a provarne tanti, l’offerta deve garantirmi la possibilità di selezionare sempre qualcosa di diverso e accattivante. Se, invece, posso giocare poco, dovrò essere io a vagliare con oculatezza le opzioni disponibili.

In secondo luogo, l’abbondanza di videogiochi fa bene all’industria in termini di qualità. Può sembrare un paradosso, ma è proprio grazie a questa opulenza che i team di sviluppo possono innovare e proporre qualcosa di buono per tutti. Non bisogna focalizzarsi solo sui AAA, le creazioni indie sono l’esempio più evidente di questa necessità di proporre un ampio ventaglio di alternative. Nel mucchio è inevitabile che ci finiscano anche titoli ignobili o semplicemente trascurabili, tuttavia non è un caso isolato che riguarda l’industria dei videogame. Perché nessuno ha da lamentarsi dei troppi manga da leggere con 800 volumi a serie? Perché nessuno ritiene un problema la grossa mole di serie tv che Netflix ci mette sotto il naso? La stessa discografia è comunque molto più varia di una volta, perché ora possono permettersi di pubblicare album artisti che qualche decennio fa avrebbero dovuto pagare il biglietto per entrare in un’arena.

Il processo di produzione musicale è stato democratizzato a partire dagli anni duemila con l’arrivo in massa delle DAW, ossia le workstation di audio digitale, un sistema elettronico progettato per la registrazione, il montaggio e la riproduzione dell’audio digitale; adesso per pubblicare un album basta un computer e Bandcamp, un servizio musicale che permette ad artisti indipendenti di promuovere e distribuire la loro musica online. D’altro canto, questi nuovi orizzonti aprono le porte anche ad artisti emergenti davvero di talento che altrimenti sarebbero rimasti chiusi fuori dal teatro, in attesa di essere chiamati ad un talent show.

Tornando ai videogiochi, le produzioni ad alto budget vengono spesso tacciate di essere poco originali e di proporre more of the same, cionondimeno la massa vuole giocare tutto accusando poi l’industria di causare bulimia videoludica. Bisogna mettersi d’accordo: o i giochi sono diventati noiosi e tutti uguali, e quindi non c’è bisogno di provarli tutti e subito, oppure il loro valore è ancora riconosciuto come pregevole, cosa che porta i più a buttarsi a capofitto in servizi ad abbonamento e a fare il pre-order di qualsiasi cosa.

Sapete qual è il vero punto della questione? Un problema c’è, ma non riguarda il gran numero di videogiochi oggi su piazza, è necessario osservarlo da una prospettiva diversa. Non è l’abbondanza di cui dobbiamo preoccuparci, a doverci far riflettere è come questa viene sfruttata dall’utente. Se ad un banchetto il tavolo è riempito in modo luculliano e i commensali si ingozzano fino a sentirsi male, il problema non è il banchetto, ma la mancanza di autocontrollo degli stessi. Se in quel caso si può addurre una giustificazione morale (il cibo sarebbe finito nella spazzatura), nel caso dei videogiochi questa non esiste perché quelli rimangono lì, sono sempre a nostra disposizione, non vengono gettati.

C’è davvero bisogno di giocare tutto subito? Ecco il vero problema: i giocatori vogliono primeggiare. Arrivare primi nel mondo del giornalismo è spesso controproducente nella fruizione corretta di un prodotto, ma essenziale se si cercano visibilità e la scalata di quella impervia montagna chiamata Google. La cosa sconfortante è che questo fenomeno sta, negli ultimi anni, prendendo piede anche tra coloro che non hanno alcuna motivazione professionale. Il giocatore medio vuole arrivare primo, vuole pubblicare la sua recensione, il suo parere su Facebook anticipando tutti gli altri, nonostante questo compito non gli porti null’altro che qualche like.

Oggi, tutti si sentono in dovere di lasciare la propria impressione, ed è bello che una passione unisca tante persone, è anche questo il ruolo di un prodotto d’intrattenimento/artistico, cioè creare spazi sociali, fisici o digitali, in cui esprimere la propria idea; la cosa prende una piega avvilente quando la condivisione diventa competizione, una gara in cui vince chi è riuscito a scattare più screenshot degli altri nel minor tempo possibile, a platinare in due giorni l’ultimo attesissimo videogioco per ostentare una superiorità effimera.

Tutti, in questo momento storico, possono dire di avere una bolla social, cioè un gruppo di persone fedeli che seguono ciò che pubblichi. Questo ha portato a una voglia irrefrenabile di distinguersi, di segnalarsi agli altri. Per farlo, però, bisogna battere gli altri sul tempo, altrimenti non si spicca a sufficienza, ecco spiegata l’esigenza di assaggiare tutto, a volte senza finire nulla. La causa non può essere ricercata nell’immensa proposta ludica moderna perché vedere quest’ultima come un nemico, piuttosto che come una risorsa, significa cercare un colpevole diverso da quello reale, cioè noi stessi. La pistola non spara se non è il dito a premere il grilletto.

Adesso scusate, ma devo andare a riprendere Forza Horizon 5, altrimenti lo finirò nel 2046.


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