Il review bombing per fini politici torna a colpire il mondo dei videogiochi, e anche stavolta come altre per questioni politiche. E’ il turno di Life is Strange: True Colors, atteso nuovo episodio della fortunata serie di avventure narrative, che alla vigilia dell’uscita è stato vittima di una campagna di votazioni negative da parte di giocatori cinesi, attivisti politici di quel Paese e, probabilmente, organizzazioni governative.
Il motivo è delicato: la presenza, nel gioco (uscito il 9 settembre), di una bandiera tibetana, espressione di una questione politica che Pechino vede da anni come una vera e propria spina nel fianco anche a causa delle realtà e personalità occidentali che da sempre l’hanno sostenuta.
Non si tratta di una mossa politica nascosta: le recensioni negative degli utenti sono anzi ben contestualizzate e motivate.
“Il gioco contiene elementi di indipendenza tibetana, implicando una scissione della Cina”, scrive un utente, e “il Tibet è una parte della Cina”, ripete un altro. E ancora:
“Taiwan, Hong Kong, Macao e il Tibet sono territori cinesi fin dai tempi antichi. Non importa come pensano gli obsoleti, alla fine torneranno alla madre patria. Suggerisco che i NEET leggano più libri, smettano di essere stupidi, e trovino un lavoro per mantenersi. Taiwan, Hong Kong, Macao, e il Tibet fanno parte della Cina per sempre“.
Non è la prima volta che rivendicazioni politiche di stampo cinese entrano nel dibattito videoludico, che sia in modo movimentista (come analoghi review bombing per chiedere la localizzazione in cinese di giochi come Fifa ’19) o in seguito a una chiara rivendicazione delle autorità (sì, parliamo del famigerato caso Devotion). In questo caso tuttavia la questione è forse ancor più interessante e delicata, per due motivi:
- Più di altre, quella del Tibet è una questione internazionale molto delicata e mediaticamente esposta che in un certo senso fa irruzione in un discorso su un gioco esponendolo a critiche molto “hot”. Ragionando sulla questione, viene il dubbio che Deck Nine Games si sia voluta esporre prendendo una chiara posizione sul fatto e provocando un dibattito.
- Ancora una volta, mettei n luce come il review bombing faccia emergere un’immagine estremamente problematica degli strumenti di valutazione messi a disposizione degli appassionati dal web 2.0
Andiamo con ordine.
La situazione tibetana e il ruolo dei mass media
Un po’ di storia: fin gli anni immediatamente successivi all’occupazione cinese del Tibet (1950), la Repubblica Popolare ha operato una feroce opera di “normalizzazione” della cultura della regione in nome della Rivoluzione Culturale di stampo marxista, che ha portato il paese patria del Dalai Lama a divenire simbolo delle politiche repressive cinesi.
Si tratta di uno scontro antico e ormai molto profondo, ancora irrisolto, che da sempre si è intrecciato con uno scontro mediatico.
La stessa figura del Dalai Lama è divenuto, dagli anni ’90 in poi, al centro di una centralità mediatica passata anche attraverso gli stretti rapporti con gli Stati Uniti e l’industria dell’intrattenimento.
Nell’età delle community online e successivamente delle culture digitali, questa guerra fredda mediatica ha avuto uno sviluppo tale da arrivare sino agli esiti attuali, con uno status della questione tibetana tale da entrare nel discorso pubblico in vari modi, fosse anche solo la citazione della bandiera tibetana in True Colors: a quanto pare, nella cittadina di provincia in cui si ambienta il gioco essa compare in un negozio dedicato ad articoli asiatici, fatto non strano anche nella realtà, ed è al suo interno che la bandiera compare.
Tutt’ora, grazie anche all’azione di “ambasciatori” di peso come l’attore Richard Gere, la questione tibetana è uno dei temi dell’area asiatica più diffusi e trattati a livello mondiale.
Review bombing e politica
Situazioni come quella del bombing di True Colors non sono certo nuove, anche al di fuori delle questioni dedicate all’area cinese: basti pensare alla questione The Last of Us: Parte II, che all’uscita nel giugno 2020 venne bombardato da appartenenti all’estrema destra statunitense per i suoi contenuti LGBT+ e per la vicinanza di Naughty Dog a posizioni democratiche.
In entrambi i casi riportati, quest’ultima e quelle legate alle vicende cinesi, appare chiaro un fenomeno di complessa “stortura” dello strumento review, che merita una riflessione.
Nate come massima espressione della “voce del consumatore”, piattaforme come Steam o Metacritic sono spesso divenute una sorta di megafono per campagne politiche di varia natura, spesso con obiettivi anche “positivi” come la stigmatizzazione di comportamenti tossici di questo o quel team o di contenuti controversi di un titolo.
Il web 2.0 è anche questo, la splendida vetrina di una serie di movimenti e rivendicazioni progressisti che spesso hanno costruito una voce critica all’interno della comunità dei gamers.
Quasi come a ricordarci che tuttavia uno strumento del genere “può essere piuma come ferro”, casi come quello di Naughty Dog e True Colors ci ricordano tutta l’ambiguità di strumenti come Metacritic nel momento in cui dietro inizia a esserci una regia con obiettivi controversi.
Tenendo presente che come accennato prima l’impatto delle recensioni ha sempre una conseguenza di orientamento degli acquisti o nella formazione delle opinioni, le domande cominciano a emergere: è accettabile che il destino di un prodotto, e dunque del lavoro di un team di sviluppo sia messo alla mercé di campagne politiche volte a colpire questo o quel contenuto?
Tenendo conto, soprattutto, che spesso le politiche dei developers mettono cospicui bonus ai singoli sviluppatori sulla base del punteggio Metacritic.
E capirete bene come questo complichi la situazione e crei degli esiti particolarmente problematici per i singoli professionisti.
“Ciò che non mi uccide mi rende più forte”
Per una perversa combinazione di fattori, è paradossale come questa come altre volte un fenomeno all’apparenza negativo possa testimoniare la forza di un medium espressivo ancora “non sempre compreso” come il videogioco.
Certo per ammetterlo c’è da dare per scontato un problema di fondo, che tuttavia guarda più al sistema di comunicazione che all’argomento-il videogioco: una serie di complesse problematiche legate alla rete, ai suoi metodi di utilizzo, alle ambiguità legate a certi movimenti legati in essi (sempre sospesi fra rivendicazione, prevaricazione e doppi fini).
Se però mettiamo un attimo da parte questo problema, iniziamo a renderci conto che ogni caso simile a Naughty Dog o a True Colors sia anche un fatto estremamente positivo, come lo sono stati quelli a Devotion: significa riconoscere che il videogioco è ormai visto come un “testo mediatico” potente quanto un film della Marvel o il nuovo grande romanzo americano, in grado di raggiungere milioni di persone e di influenzare le coscienze anche con messaggi politici strutturati.
Significa, in un certo senso, riconoscere che intrattenerci con un videogioco non è forse tutta questa gran perdita di tempo (con buona pace del The Telegraph).