Se come me siete vicini ai 30 e già da qualche anno sentite il peso di frasi come ai miei tempi i giochi erano più difficili o oramai i giochi vengono fatti per vendere, non c’è più interesse in una bella storia oggi è il vostro giorno fortunato, perché a voi ci pensa VirtuaVerse. Dopo aver provato il primo livello alla Gamescom l’anno scorso, abbiamo finalmente potuto recensire il prodotto finito, e ne siamo rimasti estasiati. Sviluppato da due ragazzi italiani (e ad un terzo collaboratore) al loro primo gioco, VirtuaVerse è una avventura grafica in pixel art vecchio stile che fa della sua difficoltà un vanto e che costringe il giocatore a masticare tematiche toste come privacy e alienazione. Il risultato è un insieme di suoni e colori che arrivano dritti dritti da fine anni ’80 e che vanno a mischiarsi con critiche e riflessioni sociali di forte importanza attuale. Noi siamo rimasti incantati, e vi spieghiamo perché, rigorosamente spoiler free!
Un gioco da (vecchio) manuale
Nel mondo cyberpunk di VirtuaVerse, il genere umano è ormai in simbiosi con la tecnologia, nell’accezione più malsana che possiate immaginare. La percezione del mondo circostante è costantemente modificata da impianti permanenti, i quali proiettano un mondo artificiale sui sensi delle persone, il tutto dietro la tessitura, come da copione, di una misteriosa quanto malvagia corporation. In pieno stile classico, l’anti-protagonista per eccellenza si ritroverà immischiato in situazioni più grandi di lui e, per seguire il suo cuore, finirà per passare da elemento ai margini della società ad eroe. Per quanto possa sembrare banale come trama, il gioco rispetta tutti quelli che erano i canoni del “bel gioco” di una volta, con un aumento di difficoltà costante che va di pari passo con l’intensificarsi dello stato emotivo del giocatore. Se aggiungiamo anche il finale con doppio climax, il gioco diventa la rappresentazione perfetta di come la trama di un gioco dovrebbe evolversi, non secondo noi ma secondo la scienza. (Csikszentmihaly, Haggis-Burridge).
Se la scienza non vi piace e preferite la fede, esiste una Bibbia che chiunque voglia sviluppare avventure grafiche deve -conoscere a memoria, il blog di Ron GIlbert. Il buon Ron, padre di Monkey Island e di tante altre avventure grafiche, ha pubblicato nel lontano 2004 questo articolo, in cui spiegava perché molte avventure grafiche erano di bassa qualità, e come renderle migliori. Inutile dire che gli sviluppatori avevano probabilmente stampate in ufficio queste parole, perché VirtuaVerse non sbaglia quasi nulla. E’ sempre chiaro cosa si deve ottenere e in quale ordine i puzzle vanno risolti, e la Moon Logic non è presente se non in un paio di enigmi i cui indizi sono nascosti così in profondità da diventare introvabili. Scricchiola forse un po’ la scelta di tenere in inventario una marea di oggetti per tutto il gioco, così come la possibilità di riutilizzare lo stesso oggetto per più puzzle, ma essendo VirtuaVerse dichiaratamente hardcore lo si deve mettere in conto come scelta di stile. Resta che in VirtuaVerse nulla esiste per caso, ogni dettaglio è importante e perdersi anche solo una frase in un dialogo potrebbe causare ore di mal di testa.
Sono comunque peccati veniali, dato che VirtuaVerse ha una storia lunga, bella, solida, chiara, in cui il protagonista viene inizialmente trascinato dagli eventi, prendendo man mano consapevolezza di ciò che succede intorno a lui ma senza mai riuscire però a controllarli. Il tutto avviene senza mai scadere nel banale o sembrare qualcosa di già visto: il titolo rappresenta una forte critica sociale verso quello che è l’uso indiscriminato delle tecnologie, ed urla forte una richiesta di attenzione verso importanti temi come privacy, IA, e invasività della tecnologia. Come in ogni contraddittorio che si rispetti, tutto ciò viene parzialmente messo in discussione in vari punti della storia, con la macchina che a sua volta critica la superbia dell’uomo che si crede superiore. Il finale è aperto, stupefacente, e rivelatore, ma per scoprirlo, dovrete giocarlo voi.
Tanto bello da vedere quanto da sentire
Se la storia ci ha coinvolti, il comparto tecnico ci ha rapiti. A memoria non ricordo quando sia stata l’ultima volta in un videogioco in cui mi sono fermato, ho alzato il volume e mi sono messo ad ascoltare la colonna sonora senza pensare al gameplay. Le musiche di VirtuaVerse, firmate da Master Boot Record e che vi consigliamo di recuperare qui, non sono solo un omaggio alle musiche dei vecchi videogiochi, ne sono una evoluzione diretta, e se fossero uscite 30 anni fa, oggi farebbero parte dell’Olimpo della musica dei videogiochi, a pari della Scumm Bar, della colonna sonora di Doom o di Cannon Fodder.
Dal punto di vista visivo VirtuaVerse è una prelibatezza, gli ambienti sono tutti ben caratterizzati, dal rosso deserto pieno di incertezza alle bianche lande ghiacciate dove regnano i fantasmi, passando ovviamente tra le strade scure illuminate al neon della città. Le animazioni sono fluide e varie, anche se su alcuni personaggi minori si poteva fare qualcosa di più. Una critica più forzata che reale su un prodotto davvero bello da vedere sia in gameplay che in cinematica. VirtuaVerse è inoltre estremamente solido, senza bug evidenti o caricamenti troppo lunghi. E come se servisse, ha un bug tool integrato all’interno del gioco, sorprendente per un prodotto “casalingo” sviluppato da tre persone. Sembrerà una sciocchezza, ma bisogna togliersi il cappello davanti una cura del dettaglio così maniacale, soprattutto per un team così ridotto. Chapeau.
Alienatevi
VirtuaVerse è un gioco che consigliamo senza indugio. Non è un prodotto per tutti e bisogna essere chiari nel dirlo, si deve essere pronti ad una sfida tosta e a rimanere anche bloccati per qualche ora per goderselo, magari mandando giù un pò di frustrazione qua e la, ma secondo noi ne varrà la pena. In VirtuaVerse non ci sono magie che indicano il percorso, aiuto stampati a caratteri cubitali, o suggerimenti tirati con la fionda. VirtuaVerse è un gioco di fine anni 80, difficile, tosto, alle volte irritante, ed è per questo che lo adorerete.
Da un lato speriamo che il successo di questo primo titolo aiuti gli sviluppatori ad allargare il team e a poter sfornare altri giochi di questa portata, dall’altro abbiamo paura che una cosa del genere possa ridurre quel profumo di “me lo sono costruito nel garage” di cui il gioco è pregno e che lo rende una prelibatezza più unica che rara al giorno d’oggi.