Questa storia avrebbe in teoria un sottotesto abbastanza tragico: il protagonista è un bambino italiano che non ha ancora superato il terzo anno di età a cui viene diagnosticata una malattia abbastanza rara, non di quelle mortali ma di quelle che ti costringono dentro casa per mesi e mesi. Prima dell’età di quattro anni, il protagonista della storia (ovvero chi scrive) incontra i videogiochi sporadicamente.
Una volta finisce terribilmente impaurito a causa del Midgar Zolom di Final Fantasy VII, incapace di leggere i testi necessari (figuriamoci di capire la lingua scritta) per prendere il Chocobo per glissare tale segmento di gioco, un’ altra volta finisce per cancellare erroneamente un salvataggio da 120 stelle in Super Mario 64, un’ altra volta ancora cancella degli importanti file di testo smanettando con un vecchio computer MS-DOS alla ricerca di un millantato Super Mario Bros.
L’incontro fatale però è avvenuto dopo, in un contesto non solitamente avvicinato a quello del mondo dei videogiochi: quello ospedaliero.
La playstation come soluzione ai letti d’ospedale.
Alla nobile età di quattro anni un ricovero ospedaliero di tre quattro mesi costringe un bambino altrimenti piuttosto attivo ad un letto d’ospedale. Al bambino risulteranno impossibili tutte le azioni precedentemente comuni e divertenti: correre per le campagne, giocare con la terra, appassionarsi ai macchinari da movimento terra e così via. I dottori sono stati molto chiari fin da subito con i genitori del piccolo:
“poco movimento, nessuno sforzo; per contenere la sua vivacità comprategli una di quelle robe li, una playstation.”
Detto fatto: il bambino si è ritrovato poco dopo con un piccolo televisore a tubo catodico e una Playstation 1 durante l’Ottobre del 1997. Armato di Crash Bandicoot, Formula One 97 e Tekken 2, il protagonista di questa storia si ritrova immediatamente alle prese con un qualcosa che lo influenzerà in un modo talmente profondo da cambiare per sempre la sua vita e quella di chi gli sta intorno.
Tra i tre titoli quello di maggior effetto, sul contenuto della scatola cranica del piccino, è sicuramente Crash Bandicoot: il primo capitolo della saga platform di Naughty Dog appare subito familiare alle manine del giocatore, già innamoratosi del genere platform tra una sporadica partita a Super Mario 64 ed una presa visione per Super Mario Bros.
I livelli del primo Crash Bandicoot scorrono abbastanza rapidi tra un game over ed un altro e determinati scenari ancora continuano a imperversare nel cuore e nell’immaginario di chi scrive: le musiche di Motato Muzika appaiono ancora come incredibilmente tropicali, le palette di colori di livelli come Sunset Vista ancora animano tutti i tramonti che immagino quando serve.
Formula One 97 invece poco rientra tra nei gusti del piccino, decisamente poco interessato al mondo dei motori e della velocità; quello che lo stupisce però è il vedere i medici che, nei momenti di pausa e riposo, invece che fumarsi una sigaretta o farsi semplicemente gli affaracci propri corrano verso una determinata stanza per chiedere ai genitori e al piccolo se è possibile farsi un giro con le macchine sulla Playstation.
All’età di quattro anni, per la prima volta, ho avuto l’occasione di comprendere l’incredibile potere sociale e relazionale che può scaturire da una console di videogiochi e da quello che ci metti dentro.
Fuggito dall’ospedale il protagonista di questa storia torna a casa e si ritrova in una situazione curiosa: i giochi che prima erano i suoi preferiti, quelli all’aria aperta, ora non possono essere praticati con la stessa veemenza e con la stessa forza, complici i postumi dell’ospedale; al piccolo non rimane che gettarsi di nuovo sulla Playstation ed inizia a esplorare, mese dopo mese, regalo dopo regalo, la ludoteca della prima console Sony.
Benevolo escapismo videoludico.
Fast forward di qualche anno: a causa di una particolare procedura medica, chi scrive si è ritrovato a sopportare 8 mesi filati di vita senza poter uscire di casa.
Il comitato scientifico a cui si affidava il piccolo, composto da suo padre e sua madre, trovano una soluzione geniale a tale problematica: uno schermo più grande (un proiettore con uno schermo da 100 pollici) ed una valanga di giochi Playstation 2 (scartata in mezzo a mille lacrime l’anno precedente) su cui fare affidamento nei momenti di noia, unica certezza che ci sarebbe stata per mesi e mesi.
Per sfuggire ad una situazione di disagio imposta dalle sfortune della vita, il piccolo si è ritrovato a divorare uno dopo l’altro giochi per centinaia e centinaia di ore. A questo periodo di tempo appartengono i primi suoi playthrough di Final Fantasy X, di Grand Theft Auto III (che non ha avuto chissà quali effetti killer sulla mia giovane mente), di Metal Gear Solid 2 (di cui non capìì letteralmente niente) senza dimenticare gli ultimi grandi titoli Playstation 1 come Final Fantasy IX o qualche platform sbarazzino alla Le Follie Dell’Imperatore.
Videogiocare, per chi scrive, è stato il modo migliore per poter ottenere uno spiraglio di luce su mondi mai visti, chiuso dentro una stanza dalle coincidenze sfortunate della vita. In assenza di finestre su un mondo da percorrere, l’industria videoludica ha permesso a me (e a chissà quanti altri) di andare alla scoperta di altro, di non sprecare tutta la meravigliosa curiosità infantile all’interno delle routine televisive o di chissà quale altro contenitore.
Amare i videogiochi è stato un riflesso ad una situazione di disagio: essi hanno risposto alle mie necessità quando non c’erano molte altre soluzioni e sono riusciti ad essere, grazie al supporto di chi mi era vicino, l’esperienza formativa che chiunque ad un certo punto nella propria vita va cercando. Le mille storie che un paio di console mi hanno permesso di vivere hanno lasciato un impronta profonda quasi quanto le cicatrici dell’ospedale.
Si, magari è un po’ fuori tema perché non si tratta di un videogioco specifico ma queste memorie sono la dimostrazione empirica di uno di quei modi di dire ormai scevri di significato: non tutto il male vien per nuocere. C’è chi dai traumi ha ricavato gli incubi, chi nei traumi ha trovato una delle passioni più forti della sua vita.