Dishonored 2 – Recensione

Articolo a cura di Gianluca “DottorKillex”Arena

L’attuale generazione di console, nonostante gli squilli di tromba che ne accompagnarono l’arrivo, non ci ha regalato un grande numero di nuove proprietà intellettuali, preferendo affidarsi ai remaster e a seguiti di prodotti di successo provenienti dalla precedente era videoludica, quella di Playstation 3 e Xbox 360. Se questa constatazione, in senso assoluto, non induce all’ottimismo, è pur vero che moltissime delle proprietà intellettuali nate nell’ultimo decennio meritano di evolversi in franchise più articolati, grazie alla bontà delle dinamiche ludiche ed alla caratterizzazione dei personaggi e del mondo di gioco; Dishonored appartiene sicuramente a questa cerchia, ed è quindi con trepidazione che attendevamo l’arrivo del seguito diretto, oggi tra le nostre mani. Dopo esserci immersi a Karnaca ed esserci sporcati le mani, eccoci qui a raccontarvi dei suoi segreti. Benvenuti nella recensione di Dishonored 2.

Usurpatori, usurpatori ovunque

Tre lustri sono passati dalle vicende del primo Dishonored, che ha goduto, come tutti i titoli di primo piano della scorsa generazione, di una versione rimasterizzata per PS4 e Xbox One: per coloro che si fossero persi il titolo originale o quest’ultima, recensita peraltro sulle nostre pagine, l’incipit di Dishonored 2 apparirà comunque chiaro e solare, includendo un breve riepilogo degli avvenimenti che portarono Emily Kaldwin sul trono, dopo l’assassinio di sua madre, l’imperatrice Jessamine. Il regno di pace e prosperità sul quale ha vigliato l’occhio attento di Corvo, eroe del primo capitolo, sembra volgere al termine proprio durante la fase introduttiva di questo seguito: un fulmineo e ben orchestrato colpo di stato, dietro il quale si nasconde la zia dell’attuale regnante, Dalilah, porta Emily a fuggire e perdere tutto ciò che aveva faticosamente costruito sulle ceneri del regno di sua madre. A fare da sfondo alle vicende un’ambientazione non meno affascinante della Dunwall del capostipite, un’assolata cittadina marittima che risponde al nome di Karnaca, e che trae ispirazione tanto dai paesaggi del sud Europa quanto dalle isole del Mediterraneo come Malta e Cipro. Ovviamente il grande burattinaio conosciuto già dopo l’assassinio che apriva il prequel, ovvero l’Estraneo, tornerà ad offrirci i suoi servigi, e, differentemente dal passato, all’inizio del gioco si avrà la facoltà di rifiutare il suo aiuto, con la possibilità di giocare senza alcun potere speciale. Se, da un lato, questa scelta innalza notevolmente il livello di difficoltà dell’avventura (che pure dispone dei consueti selettori come Normale o Difficile), dall’altro causa la perdita di una delle caratteristiche più intriganti e uniche di Dishonored, che ne distinguevano con forza il gameplay da prodotti simili come i primi Thief. Anche stavolta, al netto di comprimari non sempre interessanti quanto i tre protagonisti, a fare la fortuna del prodotto Arkane Studios è una città meravigliosamente caratterizzata, che regala scorci portuali magnifici e li alterna a vicoli lerci, infestati da Mosche del Sangue, palazzi sfarzosi quanto imponenti costruiti vicino a baracche fatiscenti: in una velata critica al crescente divario tra ricchi e poveri nel mondo, Dishonored 2 mette il giocatore all’interno di una realtà urbana credibile e, nel contempo, foriera di elementi sovrannaturali, a creare un mix unico, che solamente un medium come quello videoludico potrebbe veicolare. Un po’ come per la struttura di gioco, quindi, l’elemento narrativo portante della produzione è il medesimo del primo episodio, ovvero il desiderio di vendetta nei confronti di un manipolo di complottisti.

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Silenzio letale

Indipendentemente dalla scelta del protagonista, che influenza i poteri a disposizione e, in maniera più marginale, la resistenza agli attacchi (Corvo può subire qualche colpo supplementare mentre Emily è più veloce e silenziosa), il gameplay alla base di Dishonored 2 è il medesimo che ha decretato il successo del predecessore, elevato all’ennesima potenza dal punto di vista della libertà d’azione, della molteplicità di approcci e della complessità del level design. Se giocare con Corvo non potrà che scatenare deja-vu nei giocatori che avevano portato a termine Dishonored, visto che i poteri sono grossomodo gli stessi, con minime aggiunte, una run con Emily rompe maggiormente la continuità con il passato, fornendo un set di abilità diverse ma comunque improntate allo stealth: ancora di più che in passato, Dishonored 2 punta forte sull’azione silenziosa, sull’attaccare i nemici dalle ombre, sul diventare una morte invisibile, e lo fa, innalzando i danni inflitti dalle guardie ed aumentando le pattuglie rispetto al primo episodio. A dirla tutta, il leggero aumento della difficoltà è dovuto anche al ritorno in toto dei limiti di un combat system che sembra un’evoluzione di quello di Skyrim (e quindi molto viscerale ma non esattamente preciso in quanto a hitbox e peso dei colpi), e che sconsiglia di affrontare più di una, massimo due guardie per volta, soprattutto vestendo i panni di Emily. L’aggiunta di una parata perfetta, che premia i più tempestivi con una cruenta uccisione sul colpo del malcapitato avversario, aggiunge spettacolarità ma non migliora la sensazione di goffaggine che fa capolino di quando in quando. In compenso, prendere gli agenti alle spalle, dopo aver studiato attentamente le ronde e le possibilità strategiche offerte da livelli sempre ampi e pieni di sorprese, si rivela non solo la soluzione migliore (nonché, probabilmente, quella originariamente pensata dagli sviluppatori) ma anche quella che restituisce maggiore soddisfazione. Giocare a Dishonored 2 come uno sparatutto in prima persona non è affatto consigliato, e porta spesso a morti frustranti, mentre muoversi nel buio sa regalare tantissime soddisfazioni: studiare la disposizione e la composizione delle pattuglie, piazzare delle trappole al momento giusto, sgattaiolare nuovamente nelle ombre e guardare gli ignari nemici andare incontro ad una fine orrenda non ha prezzo, e riporta sullo schermo i migliori momenti del primo capitolo. Se da un lato spiace vedere come il team di sviluppo non si sia curato di migliorare le criticità del prequel, come il già citato sistema di combattimento ed un’intelligenza artificiale altalenante, dall’altro ci si crogiola in un level design enormemente migliorato, che premia i giocatori più pazienti e fantasiosi, garantendo soluzioni non letali ma ugualmente efficaci. Come in passato, il numero di cadaveri che ci si lascerà alle spalle determinerà il finale tra quelli disponibili, oltre che il grado di infestazione delle fastidiosissime mosche del sangue, che soppiantano le orde di ratti che bazzicavano per le viuzze di Dunwall: pur muovendoci perennemente nell’ombra, noi non abbiamo resistito alla tentazione di tagliare diverse gole, ottenendo un finale assai cupo al termine della prima run.

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Nuovo motore, nuova vita

L’aspetto tecnico di Dishonored 2 presenta molti alti e solo una manciata di bassi, quantomeno nella versione Xbox One da noi testata: il cambio del motore grafico rispetto al primo capitolo, con il passaggio da Unreal Engine ad una versione modificata dell’ ID Tech, denominata Void, ha giovato enormemente alla draw distance, alla modellazione poligonale dei personaggi (soprattutto quelli primari), alla qualità delle texture e al numero di personaggi contemporaneamente su schermo. Queste migliorie, se accoppiate ad una direzione artistica paragonabile a quella del primo capitolo per ispirazione e qualità del tratto, rendono l’opera di Arkane Studios uno spettacolo assai piacevole per l’occhio del giocatore, anche se, ad un’analisi più attenta, le magagne non mancano. Si va da una set di animazioni talvolta legnoso, che non sembra essere stato ritoccato poi tanto rispetto al recente passato, a cali di framerate nelle zone più ampie, quando gli NPC a schermo aumentano esponenzialmente, passando per il riciclo eccessivo degli asset delle guardie, che vantano due o tre modelli differenti ripetuti alla nausea (o con variazioni quasi impercettibili). Nessuna di queste problematiche, che permangono nonostante la maxi patch da oltre nove giga da scaricare su console prima dell’avvio iniziale del gioco, non rovinano comunque l’esperienza di gioco, visti i ritmi compassati e l’attenzione posta sullo stealth: in ogni caso, viste le recenti performance del motore ID Tech (Doom era un capolavoro di velocità e stabilità, nonostante il caos a schermo), era forse lecito aspettarsi qualcosa in più. La durata complessiva è strettamente legata alla tipologia di approccio che si sceglierà di adottare: in stealth, giocando con calma e dedicandosi anche all’esplorazione, alla ricerca di bonus e collezionabili, si raggiungono senza fatica la ventina di ore, mentre i più frettolosi, che preferiranno avanzare ad armi spianate, potrebbero ricavarne poco più della metà. Considerando la presenza di due personaggi e dei già citati finali multipli, quindi, l’offerta ludica si presenta molto ricca per un prodotto di questo genere, graziato, peraltro, da una colonna sonora d’eccezione e da un doppiaggio italiano decisamente sopra la media, anche se al netto di un paio di voci meno azzeccate delle altre.

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Commento finale

Se volessimo muovere una critica a Dishonored 2, sarebbe sicuramente quella di aver osato poco rispetto al predecessore, configurandosi più come un more of the same che come un sequel davvero innovativo. Cionondimeno, l’esperienza di gioco è stata ampliata, arricchita, il livello di difficoltà medio leggermente innalzato, la cosmesi ritoccata, l’offerta ludica rimpinguata: considerando che le basi erano già di ottimo livello, e che non si può parlare di stanchezza per un brand solo al suo secondo episodio, non possiamo che promuovere il lavoro di Arkane Studios, consigliandolo senza troppe riserve anche a scapito del suo predecessore. In un eventuale (probabile) terzo capitolo vorremmo trovare un’intelligenza artificiale nemica più raffinata, animazioni più curate e una manciata di meccaniche inedite, ma le fondamenta del brand sono solide e il futuro sembra promettente, a patto di non adagiarsi troppo sugli allori.