Diario del dott. Flammini 25 Ottobre 1957

Flammini 25 ottobre 1957

Diario del dott. Flammini 25 Ottobre 1957

Questa volta me la sono vista veramente brutta, qualcuno li in alto sicuramente mi vuole davvero bene, ma adesso sono salvo, queste quattro pareti fredde mi proteggono da tutta quella follia.

Mi ero appena appisolato quando quel pazzo di Ultimo Terziani è rientrato nuovamente nella cella, svegliandomi con un brusco calcio all’addome, che Dio lo maledica. Di fianco a lui un tipo sospetto: pantaloni beige, giubbotto da cacciatore verde, coppola, sigaro. Quel maledetto odore di sigaro mi ha intriso tutti i vestiti del suo fetido odore.

Io, non dico niente. Loro, mi guardano. Per un po ridono tra loro… A un tratto l’altro uomo si gira al toscano e gli fa “allora è lui? E’ ridotto male, eh? Vedo che ti sei divertito un bel poco, amico“. L’altro gli risponde che gli dispiace non avermi potuto spezzare una mano, che me ne serviva almeno una per firmare la confessione e che l’altra era già rotta quando era arrivato lui. Pezzo di merda.

ll tipo con il sigaro allora tira fuori dal suo taschino un foglio piegato in quattro e me lo mostra: ora che ci penso aveva qualcosa appiccicato sul taschino, sembrava una fotografia, no, un disegno, ma non ricordo bene cosa fosse, sta di fatto che il documento era scritto in una strana lingua… Sembrava latino, forse.

I due continuavano a ridermi in faccia schernendomi con frasi come “questa è la tua confessione vedi? Devi firmarla e tutto finirà. Potrai tornare nelle grazie del signore“. La mia risposta è stata semplice e schietta: non avrei mai firmato nulla che non avevo possibilità di capire e che volevo subito un avvocato. La risposta parrebbe scontata: un pugno sul volto e forse qualche bestemmia seguita da segni della croce, poi bofonchiarono  per un po fra loro.

Di tutta risposta la mia ferita al naso del giorno prima riprese a sanguinare. Che razza di animali…

Mi hanno lasciato li tutto il pomeriggio senza curarsi di me e senza darmi da mangiare. Poi, all’improvviso, ho sentito due persone che parlavano a voce molto alta nella stanza di fianco, parlavano di un pazzo che non era più in se, che farneticava di essere caduto da un aereo e… La porta si aprì.

Con mia somma gioia vidi Raimondo; indossava ancora il suo abito bianco ed un candido mantello era sulle sue spalle. La spada alla sua destra – mancino? – mentre in mano, nella sinistra, stringeva un grande pezzo di carta arrotolato. Continuata animatamente a rimarcare verso Ultimo che non avevano alcuna autorità per arrestarmi – arrestarmi? – che non c’erano prove contro di me e che ero solamente un povero pazzo.

Ultimo, sempre più innervosito, aprì la cella, mi prese con la forza, e mi sbatté fuori sussurrando “levati dalle palle, minorato mentale. Mi hai fatto perdere solo tempo… E ringrazia di essere un protetto della Rocca, altrimenti finivi come il tuo collega sulla pira“. Perché insiste su questo punto? Cosa c’entro io con quel disgraziato? Ancora l’ho capito… Comunque, se non fosse stato per Raimondo avrei fatto certamente una brutta fine.

Ad attenderci fuori c’era l’altro uomo che avevo visto il giorno prima ora vestito come Raimondo. Di fianco tre cavalli, dedussi che uno era per me. Ci avviammo verso l’uscita, il naso non sanguinava ma faceva ancora male; maledissi quei due sbirri. Che il diavolo se li porti.

Ci incamminammo per le vie del paese: che cosa strana, ero stato già in passato a Ravenna e vedere alcuni di quei vicoli suscitava in me una sorta di dejavù, eppure ero sicuro di non essere mai stato li.
Vidi un bar? – posso chiamarlo cosi? – Fuori c’erano degli uomini e tra loro riconobbi l’uomo con il sigaro. Alla mia vista gli si spalancarono gli occhi, fece un fischio e tutti i suoi compagni si voltarono a guardarci. Lui, con tono minaccioso, si diresse verso Raimondo intimandogli di scendere. Litigarono e l’uomo con la coppola sbraitava mentre Raimondo, serafico, ribatteva colpo su colpo “Perché e libero? Cosa ci fa qui con te? Perché non è in cella?” e su e già e di qua e di la e insomma il tipo era veramente infervorato ed era assolutamente convinto a volermi catturare di nuovo e a ricorrere alla forza se necessario.

I suoi compagni, nel frattempo, preparavano le loro armi con fare minaccioso: chi un fucile, chi una pistola e tutti si sistemavano, come a porlo bene in vista, lo stesso disegno che avevo visto sull’uomo con il sigaro. A un tratto l’altro uomo che era con noi smontò da cavallo, tirò fuori un foglio, probabilmente lo stesso usato da Raimondo alla domus populi, lo diede all’uomo con la coppola che lo lesse. Lo riconsegnò, in silenzio, si voltò ai suoi compagni e sghignazzò “adesso i Templai si mettono anche a proteggere i blasfemi… Che schifo” e sputò a terra.

Raimondo e l’altro uomo non batterono ciglio, risalirono a cavallo e tutti insieme ci recammo all’uscita della città. Superammo il pesante portone e ci dirigemmo verso la Rocca e mai vista fu può gioiosa.

Lungo il viaggio ricordo che mi stupì molto una cosa: da quando ero arrivato non avevo visto nessun tipo di trasporto. Auto, aerei, camion, niente eppure in quel frangente la quiete veniva rotta dallo sbuffare di una locomotiva… eppure intorno a me non ne vidi. Se per un attimo avevo pensato di essere tornato indietro negli anni, in un mondo popolato da cavalieri e inquisitori, quel suono spazzò via ogni dubbio.

Infine arrivammo alla Rocca, era ormai l’imbrunire. Venni condotto nuovamente nella mia stanza e dopo alcuni minuti giunse Gervaso per lenire nuovamente le mie ferite. A contrario del frate incontrato alla domus populi lui non aveva una granata, ma non pensai di chiedergli il perché non la avesse – forse perché la avesse l’altro.

Domani, se lo incontrerò nuovamente, gli farò questa domanda: “perché mai un uomo di pace come un francescano dovrebbe portare al collo una granata al collo?

Ho sonno, sono molto stanco, devo riposare

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