Diario del dott. Flammini 24 Ottobre 1957
Mi hanno portato alla domus populi… cosa diavolo è la Domus Populi?
Non ho fatto in tempo a finire di scrivere, ieri, che è entrato un uomo nella mia stanza. Ha sfondato la porta con un calcio e si è precipitato all’interno insieme ad altri individui, armi in pugno me le hanno puntate addosso, intimandoli di seguirli
Se non fossi stato terrorizzato li avrei anche considerati strani e bislacchi, dato che parevano come usciti da un libro: tutti vestiti uguali con cappotto nero, cappellaccio borsalino a falda larghe e camicia bianche.
Ma chi si credono di essere questi? Va beh, sta di fatto che di loro, oltre la grezzitudine, una cosa mi ha colpito, tutti imbracciavano rudimentali armi, solo uno aveva una vera pistola. Che siano dei poveracci? Sta di fatto che quel tipo mi punta in faccia un vecchio Bodeo e si fa avanti con quel suo ridicolo accenno toscano, e mi fa: “Sei in arresto, è Dio a volerlo! Ora tu mi segui!” e mi obbliga a seguirlo per davvero.
Dalle scale intravedo uno di quei tipacci che paga Giovanni con delle monete d’argento… monete d’oro, mica banconote.
Sta di fatto che mi hanno portato in questo edificio al centro del paese, di città è chiaro non si possa parlare, e all’architrave noto appesa una vecchia scritta sbiadita che recita “carabinieri” con di fianco una virgo, eppure di divise nemmeno l’ombra.
Il posto era pieno di tipacci, tutti vestiti come i miei nuovi amici carcerieri. Sembravano a casa loro, una manica di banditi armati di vanghe, zappe, bastoni e mazze ferrate che si era impadronita della caserma ed io loro prigioniero. All’interno poi, conversare con loro, sono sicuro di aver visto un francescano, uno di quelli con il saio marrone che girano scalzi come Raimondo. Lo ricordo molto bene in volto, mi ha squadrato ma non ha detto nulla, forse mi conosce.
Rimane che l’energumeno di prima, il toscano, prende e mi sbatte in una cella; senza peraltro perquisirmi, idioti, e quindi eccomi qui a scrivere di nascosto di questa mia nuova avventura in un mondo che non capisco più.
Caro diario nascosto sotto la branda, non farti beccare ti prego, o quella frusta appesa li fuori conoscerà una nuova vittima, me.
Dopo una buona mezz’ora buona il mio “tipaccio” torna, è senza cappello questa volta. Mi tira fuori con i suoi delicatissimi modi garbati e mi intima di seguirlo altrimenti sono dolori. Capisco che punta all’altra mia mano, quella sana. Decido che è meglio dargli retta.
Mi spinge in una stanzetta priva di finestre, qui accende delle candele e comincia a tempestarmi di domande. Come mi chiamo, da dove vengo, cosa ci faccio a Ravenna – Ravenna, è davvero Ravenna questa? – Gli spiego nuovamente la faccenda, del viaggio aereo verso Vienna, di esser precipitato, di esser stato salvato da tal Raimondo alla Villa delle Rose… e a quel nome se l’uomo era sembrato un duro sino a quel momento, tutto precipitò e l’aria si fece più tesa.
Dopo interminabili silenzi e sguardi di scrutamento mi fa: “tu cosa c’entri con la Villa delle Rose?” “Io, nulla, non c’entro nulla con l’esplosione, era già cosi quando l’ho vista la prima volta”.
Non l’ha presa bene, non l’ha affatto presa bene. Si è alzato, è venuto verso di me e con un calcio mi ha scaraventato a terra, sfondando il poggiaschiena della sedia. Non ho ancora scritto che ero ammanettato, vero? Diavolo. Bhe, fu cosi che quando mi calciò rimasi incastrato e sbattei lo sterno allo spigolo del tavolo e per poco non me lo ruppi. Ma a quello stronzo non interessava e, con tutta tranquillità del mondo mentre io pregavo dentro di me di recuperare il fiato, mi prese la testa, la girò verso la sua e sussurrandomi disse: “Lo sai, vero, che oggi ne abbiamo bruciato già uno? O collabori o ti faccio fare la stessa fine e sarà solo Dio ad avere pietà di quanto hai fatto“.
Ho pianto come un bambino. Ho strillato come una femminuccia. Non sapevo nemmeno cosa volesse sentirsi dire. Di tutta risposta prese nuovamente i miei capelli e mi sbatté la faccia sul tavolo, rompendomi il naso. Poi sussurrò di nuovo: “ho già ammazzato molti della potestas diaboli. Tu sarai solo una tacca in più….”
Si avviò verso la porta, mi guardò e disse “non metterti mai contro di me. Non metterti mai contro Ultimo Terziani, perché sarebbe l’ultima cosa che faresti” ed uscì.
Pochi minuti dopo entrò quello che sembrava il frate francescano di prima. Mi liberò dalle manette, mi portò nella cella e mi fasciò la faccia. Solo in quel momento mi resi conto che il rosario attaccato al collo aveva una peculiarità: l’ultimo grano era una granata…
Non dissi più nulla e solo ora ho ripreso il coraggio di riscrivere, per distrarmi, visto che nessuno sembra sorvegliarmi.
Dove sono…
Perché bruciano uomini in piazza…
Perché una caserma di carabinieri e presidiata da banditi…
Perchè un francescano porta una granata al collo…
Dove sono…
<- Capitolo XII – Capitolo XIV ->
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